venerdì 29 aprile 2011
Black Sabbath - Technical Ecstasy (1976)
Nel 1976 i Black Sabbath pubblicano il loro settimo album, “Technical Ecstasy”, il penultimo con alla voce Ozzy Osbourne (che sarà sostituito da Ronnie James Dio nel 1980, con l’uscita di “Heaven & Hell”).
La band si era dimostrata una colonna portante dell’hard rock mondiale già dall’uscita del primo album nel 1970, quel “Black Sabbath” che conteneva brani come la title track, che dimostrava già come i tempi rallentati, i riff ossessivi e ripetuti senza mai dimenticare l’approccio blues fossero la caratteristica della band.
Il tutto veniva riconfermato con l’uscita dell’album successivo, ovvero il celebre e fondamentale “Paranoid” (1970/1971): il sound della band si differenziava dal resto dei protagonisti del rock settantiano in termini di aggressività, gusto melodico abbondantemente psichedelico, strutture dei brani ripetitive, distorsioni e sound “sporco“…insomma, brani come “Electric Funeral”, “Iron Man” o “Paranoid” portano nel rock quello che mancava per la naturale evoluzione del genere che porterà alla nascita di nuovi stili e tendenze (l’influenza dei Sabbath nel doom, e in minor misura nello stoner è palese).
Con gli album successivi il sound dei Black Sabbath si arricchisce di influenze, in parte “ammorbidendosi” e avvicinandosi a volte al rock di tendeza, senza risparmiare le parentesi più pop (in rari casi).
Un’apice delle prime pubblicazioni è sicuramente raggiunto da “Sabbath bloody Sabbath”, quinto album in studio, dove la presenza di Rick Wakeman ospite alle tastiere è tangibile e il sound della band britannica si colora di tinte quasi prog in alcuni casi; non mancano pero’ i brani in puro stile sabbathiano come la title track o la super-coverizzata (da molti gruppi heavy metal, tra cui i Metallica) e energica “Sabbra Cadabra”.
L’album di cui parliamo, invece, segna una svolta nell’attitudine musicale della band: in questo lavoro infatti le atmosfere cupe, pesanti, i riff ossessivi di Iommi sono accantonati per un insieme di nuove caratteristiche, non meno interessanti di quelle del sound originale della band.
Fondamentale è il lavoro alle tastiere, questa volta affidato a Gerald Woodruffe, che si divide tra synth, piano e qualche passaggio sull’organo: in questo album l’importanza di questi strumenti è primaria, quindi il suddetto musicista è quasi da considerarsi un quinto membro nell’economia del disco.
L’album si apre con un paio di pezzi molto interessanti: il primo, “Backstreet Kids” è forse il brano più sabbathiano del disco, quello che più guarda verso i primi lavori.
Essenzialmente ci troviamo ad ascoltare un brano hard rock dalla struttura semplice, dove la chitarra di Iommi sembra uscita direttamente da “Paranoid”, cosi’ come la sezione ritmica cavalca su un tempo che ricorda molto da vicino brani più celebri della band.
Più particolare è “You won’t change me”, la quale apertura in puro stile “Black Sabbath” sembra preannunciare un brano lento e “doom”: in realtà possiamo quasi classificarla come una power ballad, anche se non manca certo di aggressività e spunti più particolari.
“It’s alright” è una vera pecora nera nei Black Sabbath con Ozzy: una ballata molto pacata che sembra uscita direttamente da qualche album glam o sleazy anni ‘80.
In questo senso si puo’ dire che i Sabbath abbiano anticipato in parte il sound dell’hard rock degli anni ‘80, ma in questo particolare caso il brano stona un po’ nella struttura dell’album.
Il brano è comunque abbastanza scorrevole; da notare al microfono Bill Ward, leggendario batterista della formazione storica cimentarsi per la prima volte, e con successo, nel canto.
Continuiamo con brani come “All moving parts stand still”, o “Gypsy” che ci riportano sulla via dell’hard anche un po’ heavy nel caso del primo pezzo.
In quest’ultimo brano è molto interessante il break centrale dove troviamo un cambio di tempo, che poi, in dissolvenza, riporta al riff principale e alla conclusione di uno dei pezzi migliori di questo “Technical Ecstasy”.
Già dal titolo, “Rock’n’roll doctor”, ci dice su quali coordinate si muoverà; non a caso il brano è un sostenuto rock’n’roll che ricorda in un certo senso i Rainbow meno “epici” del primo album; riff bluesy, passaggi di piano, refrain ripetuto e un bel groove fanno di questo pezzo uno dei più riusciti.
Molto bella è “She’s gone”, ballata malinconica accompagnata dalla chitarra acustica e da una sezione d’archi molto ben arrangiata; chiude l’album in maniera ottimale “Dirty Woman”, pezzo dall’andamento variabile e caratterizzato da un insieme di riff tutti molto validi.
Iommi raggiunge forse la massima ispirazione in questo brano, più che in ogni altro dell’album, suonando brevi parti solistiche (oltre ai già citati riff) molto coinvolgenti.
In generale quest’ultimo è un brano puramente hard & heavy, arricchito dall’accompagnamento all’organo oltre che da vari cambi ritmici, fino al climax finale con un Tony Iommi al massimo che “maltratta” la chitarra fino alla dissolvenza finale.
Ho voluto parlare un po’ di questo album per il fatto che, senza dubbio, è quello meno apprezzato nell’era di Ozzy; quindi per chi volesse avvicinarsi alla leggendaria formazione inglese il consiglio è sempre quello di partire dall’inizio, ascoltando album come “Black Sabbath” o “Paranoid” dove è possibile cogliere l’essenza di una band che ha scritto la storia del rock.
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