venerdì 22 luglio 2011

Spiritual Beggars - Ad Astra (2000)

In realtà avrei voluto parlarvi, più che recensire, di "Return to Zero", ultima fatica in casa Spiritual Beggars uscito in questo 2011, vincente sotto diversi aspetti: prima di tutto l'ingresso di Apollo Papathanasio alla voce, che dal vivo non renderà quanto in studio, ma è pur sempre un cantante di prim'ordine, forte del suo timbro settantiano e ben impostato; poi il nuovo taglio dei brani, meno ruvidi e più smussati, infarciti di fantastici richiami ai gloriosi 70's, dalle chitarre armonizzate alla Ritchie Blackmore's Rainbow, alle fughe solistiche (in realtà ridotte, ma meglio achitettate) dell'iperattivo Per Wiberg all'organo e tastiere; ultimo, una innegabile atmosfera vintage, che dimostra come il leader e chitarrista Michael Amott sia cresciuto più a pane e Deep Purple che a Morbid Angel a colazione come vorrebbero farci credere gli ultimi lavori (sempre meno credibili) degli Arch Enemy.
Non dimentichiamoci poi di una delle copertine più belle che personalmente abbia mai visto.
In realtà ricordiamo (per chi non lo sapesse, ma spero siano in pochi) che Amott militava (e milita, dopo la recente reunion) nei seminali Carcass, vera e propria leggenda della musica estrema, tendente già nel 1985 a combattere per la causa grind, ma più che altro di grande influenza per il death metal più classico (dall'east coast floridiano alle lande svedesi) e meno legato alle scheggie di aforistica follia dei contemporanei Napalm Death.
Come di solito accade, e questa ne è la conferma, i lavori più recenti di una band, ottimi o pessimi che siano, non rispecchiano appieno ciò che la formazione si proponeva alle origini o solo nell'imminente passato.
Facciamo un salto dunque nel 2000, quando gli Spiritual Beggars pubblicano "Ad Astra", assoluto apice nella carriera del gruppo e ottimo da sviscerare in profondità con una recensione.




Possiamo parlare di stoner nel caso degli SB? Effettivamente sarei in dubbio definire il sound della band puramente stoner: in realtà il termine indica tutto e niente, dall'aspetto musicale a quello dell'attitudine, dai richiami alla cultura degli anni sessanta/settanta più acidi, alle influenze grunge (bene o male inserite che siano, più spesso male), alle tematiche allucinate e desertiche, all'aridità effettiva del panorama sonoro disegnato.
In realtà stoner è tutto questo, sicuramente non è un genere, forse un modo di intendere la musica: possiamo quindi dire, alla luce di questo, che il primo album della band era assolutamente stoner, già da una copertina visionaria e non meno audace (in altro senso, intendiamoci!) della peggiore dei Cannibal Corpse; "Ad Astra", di cui vogliamo parlare, non manca di queste condizioni, ma lo stoner di cui penso questo album sia ricco è quello spaziale, quello che dai delirii floydiani di "Interstellar Overdrive" e "Astronomy Domine" ha aperto una strada alla psichedelia cosmica, dagli Ash Ra Tempel in poi.
Ed ecco che ne abbiamo la prova ascoltando "Left Brain Ambassador" o "Let the Magic Talk", dai riff sotterranei e dall'assoluto gusto southern, dall'organo in sottofondo ma inequivocabilmente protagonista, dalle movenze distorte e cadenzate, quasi come se i Kyuss coverizzassero qualche perla psichedelica della california settantiana.
Perfette le aschitetture dei brani e i brevi episodi solistici di un Amott che non ci fa rimpiangere la sua presenza, in qualità di leader maximo, nei sempre meno degni Arch Enemy (non li voglio sentir nemmeno nominare!), preciso e monumentale il lavoro del super tatuato Ludwig Witt dietro le pelli, per non parlare di Wiberg, vero e proprio asso nella manica, un Jon Lord dei giorni nostri.
Ed ecco che i nostri, con la title track, sfornano uno dei più bei brani hard rock (in senso molto allargato) che abbia mai sentito, debitore in egual modo dallo stoner rock vero e proprio e dalla melodia dell'hard rock di fine settanta: il refrain, per quanto semplice, rappresenta il vero e proprio manifesto della band, la breve fuga solistica della chitarra di Amott è da brividi e l'atmosfera creata dal resto degli strumentisti è ineguagliabile.
Ottimo!



Poi, ad un tratto, spunta un altro nome, che quando si parla di stoner non può non figurare: stiamo parlando forse dei Black Sabbath? Esatto.
Con "Wonderful World", soprattutto nella strofa, la band di Ozzy sembra aver avuto un'influenza fondamentale nel riff-rama, dove un ispiratissimo Amott si conferma vero e proprio erede della chitarra anni settanta, come melodista e anche come ritmica.
Stesso discorso per "Escaping the Fools": ascoltate il riff iniziale, e vedrete che ogni mio commento sarà superfluo.
Infine la premiata ditta Amott tenta (riuscendoci!) di creare ad arte la propria "Child in Time", il proprio anthem melodico, sul filo del rasoio tra power ballad e cavalcata epica: "Mantra" è un pezzo fantastico, dove uno "stonerissimo" organo si muove suadente sotto la voce di Spice, mentre un Amott stellare regala poche note, ma quelle (e le uniche) giuste.
E come in "Stairway to Heaven" la seconda parte decolla, tra un killer riff tra i più metal oriented (termine da prendere con le pinze) dell'album, e una serie di soli spartiti tra chitarra e organo che dire perfetti sarebbe un puro eufemismo.
Perfetto.



Quando penso ad Amott penso agli Spiritual Beggars: loro sono, per me, la sua band principale, ciò con cui si esprime al meglio e con i quali crea arte allo stato puro, allucinante ed alienata, ma pur sempre arte.
Se ancora non avete proveduto, procuratevi un disco a caso degli SB, ancor meglio se questo o quello di debutto, mettetelo nel lettore (o meglio, nel giradischi, tanto non rovinerete la puntina tentando di skippare i filler, non ce ne saranno!) e regalatevi un viaggio nelle profondità interstellari dello "seventies stoner".

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