Abbiamo già parlato dei Rainbow in passato, più precisamente di quel capolavoro dell’hard rock che porta il nome di “Rising” (1976), vera e propria culla del sound hard & heavy che sarà prerogativa dei primi anni ‘80.
“Rising” vedeva al fianco di Richie Blackmore una line up di prima qualità: Jimmy Bain al basso, Tony Carey alle tastiere, Cozy Powell alla batteria e il grande R.J. Dio alla voce.
L’album apriva nuove porte nel mondo dell’hard rock, tra tematiche fra l’epico e le prime avvisaglie fantasy, tastiere e synth spesso e volentieri in primo piano oltre ad una grandissima attenzione alla melodia e al feeling solistico.
La line up registrerà un live dal nome “On Stage” proprio durante il tour di “Rising” (più precisamente le registrazioni documentano le date in Germania e Giappone), che verrà pubblicato l’anno successivo.
Concluso il tour Bain e Carey abbandoneranno la formazione per essere sostituiti rispettivamente da Bob Daisley e David Stone.
Nel 1978 esce quindi quello che sarà il secondo capolavoro della band, un album imprescindibile e indiscutibilmente fondamentale nella storia dell’hard rock: “Long live Rock’n’Roll”.
Tracce come “Kill the King”, la ballata “Rainbow Eyes” o la stessa title track portano all’interno del rock sul finire degli anni settanta quel gusto per la melodia armonizzata, per i barocchismi e per la grandiosità epica che sarà poi ripresa (in chiave naturalmente diversa) dai primi gruppi heavy metal della scena britannica, con l‘esplosione della NWOBHM qualche anno dopo.
Ma dopo l’uscita di questo capolavoro la line up dei Rainbow vede nuovi, radicali, cambiamenti: mentre il fedele Powell rimane dietro le pelli al basso arriva, direttamente dalla rottura con i Deep Purple, Roger Glover (vecchia conoscenza di Blackmore); alle tastiere un giovane Don Airey (attuale tastierista dei Deep Purple e session man per le più grandi band rock di sempre, dai Sabbath al prog dei Jethro Tull) sostituisce David Stone.
Anche Dio, non convinto della validità artistica del nuovo materiale proposto da Blackmore, lascia l’amico per unirsi ai Black Sabbath, venendo cosi’ sostituito da Graham Bonnet, al suo esordio in un gruppo decisamente affermato.
La band quindi entra in studio con una manciata di brani scritti a quattro mani da Blackmore e da Glover, pubblicando nel 1979 quello che sarà il quarto album dei Rainbow: “Down to Earth”.
Innegabile il cambio di rotta rispetto ai lavori precedenti: la svolta porta la band ad un sound lontano anni luce dall’epicità di “Rising” o “Long live Rock’n’Roll”, optando per un semplice e squadrato hard rock già decisamente ottantiano, a volte tendente a sonorità assolutamente radiofoniche (secondo gli standard di Blackmore, naturalmente).
“All night long”, non a caso, non è altro che un energico e ammiccante brano hard con una strofa ultra melodica e cantabile contrapposta ad un ritornello anthemico: non si può dire quindi che la ricetta dei nuovi Rainbow non funzioni.
La voce di Bonnet è solida ed asciutta, diversissima rispetto a quella di Dio, e adatta ad uno stile meno elaborato e più improntato sull’impatto che sulla tecnica.
Con “Eyes of the World” sembra di sentire qualcosa dei grandi Europe che verrano, quelli del fantastico “Wings of Tomorrow”: tastiere in primo piano, tra synth e passaggi di organo, andamento mid ma sostenuto e grandissimo tiro e intensità della voce di Bonnet.
Ottimo pezzo.
Si torna ad un sound puramente hard rock con “No time to Lose”, dal groove che può rimandare ai Deep Purple di “Come taste the Band”.
Molto bella la parte solistica, con un Don Airey che dialoga con la chittara di Blackmore a suon di veloci passaggi all’organo.
Un arpeggio acustico apre “Makin Love”, power ballad in tutto e per tutto negli standard dell’epoca, anche se a dir la verità decisamente poco ispirata rispetto agli altri brani.
L’album prosegue con una cover di Russ Ballard, “Since you’ve been gone”, vera e propria chicca: l’interpretazione di Rainbow è magistrale, trasformando un brano pop rock da classifica in un vero e proprio anthem hard rock.
La prova vocale di Bonnet è tra le più alte dell’intero lavoro, e il breve assolo finale di Blackmore è un vero e proprio esercizio di gusto melodico.
Il blues distorto e rassegnato di “Love’s no Friend”, tra semplici ma incisivi riff di chitarra, l’organo di
Airey e l’espressività della voce di Bonnet, ci porta all’ultima parte di questo “Down to Earth”.
Chiudono “Danger Zone” e “Lost in Hollywood”: il primo è un brano hard rock dalla struttura semplice e lineare nei canoni dei nuovi Rainbow; il secondo, invece, è decisamente più interessante: la band dimostra una grande intesa, un tiro e una precisione ottimi, oltre ad una tecnica individuale da non sottovalutare, confezionando un grandissimo brano hard & heavy, sicuramente tra i migliori di tutta la produzione dei Rainbow.
Forse l’ultimo vero e proprio album dei grandissimi Rainbow, quelli che sul finire dei seventies rinnovarono il vocabolario dell’hard rock, creando uno stile che sarà tra le principali influenze per innumerevoli band all’alba degli anni ottanta.
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