martedì 26 luglio 2011

John Coltrane e il concerto all'Olatunji (1967)


Il 23 aprile 1967, ad Harlem, più precisamente nella sede dell’OCAC (“Olatunji Centre of African Culture”, ente creato e promosso per volontà del batterista/percussionista Babatunde Olatunji, vivacemente attivo anche nel campo del sociale) si teneva un evento di particolare importanza: John Coltrane avrebbe calcato il palcoscenico con la sua band per l’ultima volta, prima di trovare la morte il diciassette luglio successivo.
La seconda metà degli anni ‘60 avevano visto il musicista avvicinarsi sempre con più entusiasmo, e non senza riscontro nei risultati, alle nuove correnti che sarebbero poi confluite nella definizione spesso abusata di free jazz; la svolta nella carriera artistica e nella sfera personale che aveva portato alla creazione di uno dei massimi capolavori del sassofonista, “A Love Supreme” (1964), sembra, già dai mesi successivi, destinata a ripetersi, trasportando gli interessi del musicista verso quella nuova forma di espressione jazzistica che, comunque, non mancavano di procurargli interrogativi e perplessità.

L’avanguardia free, che vedeva abili musicisti nonché audaci sperimentatori come Ornette Coleman, Archie Shepp e Albert Ayler in prima linea, sembrava portare all’interno del linguaggio jazz quello che fino a quel momento (secondo le opinioni dei giovani strumentisti) mancava: la libertà formale, il dissolvimento dei vincoli armonici e melodici, la destrutturazione della forma canzone, la massima elasticità nelle sezioni solistiche potevano essere considerati il nuovo fine.
Coltrane aveva avuto contatti diretti con Archie Shepp già nel 1964, quando il giovane sassofonista venne invitato dal più navigato collega ad unirsi alle sessioni di registrazione per “A Love Supreme”: in realtà Shepp sarà presente solo la seconda serata, il 10 dicembre, dove insieme al bassista Art Taylor verrà registrata una versione alternativa della prima parte della suite (“Acknowledgement”) ma che non confluirà poi nel master preparato da Van Gelder.
Non si può dire che Coltrane non rimase profondamente colpito da questo nuovo approccio strumentale e comunque generale, questa new thing che sembrava aprirsi una strada sempre più ampia tra i musicisti più autorevoli: le collaborazioni al di fuori dal cosiddetto quartetto classico (completato da McCoy Tyner al piano, Elvin Jones alla batteria, e Jimmy Garrison al contrabbasso) iniziarono a concentrarsi proprio tra questi ultimi.


Pharoah Sanders

 Coltrane strinse un profondo rapporto personale e professionale con Pharoah Sanders, che lo accompagnerà anche nella nuova band fino alla fine della carriera: nel 1965 la nuova formazione allargata, vedeva lo stesso Sanders a fianco di Shepp, la presenza di due contrabbassi (Taylor e Garrison) oltre che due contraltisti (Marion Brown e John Tchicai) e due trombe (Hubbard e Dewey Johnson).
Ebbe così inizio quello che generlamente viene definito come il periodo free di Coltrane.
E’ più che mai vivo in Coltrane l'insieme di conseguenze e cambiamenti naturalmente seguiti alla svolta spirituale del 1964, prima intima e poi anche artistica, che aveva indotto nel musicista un nuovo modo di rapportarsi al mondo, arte compresa: sarebbe stato lecito pensare, infatti, che il crescente interesse verso il free e le nuove forme di espressione connesse, “violente” ma non prive di difficoltà tecniche, avessero riportato l’attenzione dell’artista unicamente allo studio e all’esercizio musicale.
La spiritualità è ancora marcata nell’animo di Coltrane, e questo traspare nei titoli delle opere più che in altre manifestazioni: “Ascension”, che nel 1965 inaugura la nuova formazione e il nuovo stile, “Meditations” (1966) che contiene brani come “The Father and The Son and The Holy Ghost”.



Archie Shepp

Altra grandissima fonte di ispirazione, sia astratta sia puramente diretta, è la cultura, non esclusivamente musicale, africana; in realtà questa non è prerogativa solo dell’ultimo Coltrane, anzi, sarà caratteristica anche per il Miles Davis dal ‘69 in poi, che seppur virando verso il jazz elettrico e una fusion music ante litteram, tenderà sempre a inserire musicalmente e concettualmente elementi di cultura africana nelle sue opere.
Già nel 1961 era stato pubblicato “Africa/Brass”, vero e proprio esperimento che univa i primi sintomi di questo ossessionante interesse del musicista ad una sezione fiati in stile big band: non dimentichiamo che nelle sessioni di registrazione partecipò lo stesso Eric Dolphy, grande influenza per il Coltrane del periodo di cui ci stiamo occupando.
Sempre per la Impulse!, nel 1965, esce “Kulu Se Mama”, testimonianza di come l’interesse verso la new thing corra parallelo ad una costante ricerca di ritmicità e musicalità nelle pulsazioni “libere” ma ossessive della musica popolare africana (non è meno forte, in Coltrane, l’associazione tra il continente africano e la sua cultura alla costante ricerca spirituale a cui il sassofonista si dedicherà fino alla fine della sua carriera/vita).

Torniamo quindi al centro di Olatunji, nel bel mezzo di Harlem, non a caso cuore della cultura afro-americana nella città di New York (e, se vogliamo, simbolicamente, di tutte le metropoli statunitensi).
Il sassofonista, ancora giovane, ma prostrato dalle fatiche della routine di musicista e ancora più segnato da un passato tormentato e costellato di esperienza negative (su tutte la dipendenza agli stupefacenti), viene affiancato sul palco da una formazione fedele, che lo seguiva dal dissolvimento del mitico quartetto classico: la moglie Alice al piano, primo e unico rimpiazzo dalla di partita dell’amico McCoy, Garrison al basso, Rashied Ali dietro le pelli, Sanders al tenore e Algie DeWitt ai tamburi batà.
I pezzi in scaletta sono due: a testimonianza del “nuovo” Coltrane, quello spirituale, africano, sospeso tra modalità esotica e free avanguardistico vi è “Ogunde”, splendido brano tratto da “Expressions” (1967); a ricordare il “vecchio” Coltrane, quello che si misurava con gli standards e le songs tradizionali, che ancora non vedeva all’orizzonte la svolta del 1964 troviamo “My Favorite Things”, brano di Rodgers & Hammerstein tratto dal musical “The Sound of Music” (1959).
Quest’ultimo è un pezzo a cui Coltrane era molto legato, e sarà una costante fissa in tutte le esibizioni del sassofonista dai primi anni ‘60 in poi.





Entrambi i brani vengono dilatati a dismisura (28 minuti il primo e circa 34 per il secondo), raggiungendo un apice di libertà espressiva e solistica all’epoca non ancora eguagliato: i 28 minuti di “Ogunde” solo in minima parte sono dedicate ad un’improvvisazione tematica, coerente con la complicata seppur affascinante melodia del pezzo, lasciando poi spazio alla summa di quello che Coltrane aveva appreso negli ultimi anni passati in contatto con l’avanguardia.
I soli dello stesso e di Sanders si trasformano in un concentrato di gemiti, latrati, fischi e lamenti, talvolta simili a grida di disperazione, talvolta a ipnotiche suggestioni tribali.
Sopra ad un beat incostante, fluttuante e spesso accostabile ad una sospensione del tempo, si sviluppano lunghe frasi di pura timbricità distorta, il quale carattere quasi esorcizzante sembra acquietato con l'ingresso in solo del piano: in realtà il tutto viene riconfermato, con Alice Coltrane che distribuisce note su note, decisamente più attenta alla resa percussiva della musica che a quella effettivamente melodica.
Dopo l’inciso pianistico è di nuovo turno dei sassofoni: ed è di nuovo l’apoteosi del free, del carattere sciamanico della nuova musica di Coltrane.
Lo stesso accade con “My Favorite Things”, aperta da una lunghissima introduzione di Garrison al contrabbasso: il tema viene distorto e capovolto, negato e calpestato, sempre sopra ad una ritmica in piena libertà, tra un beat che perde del tutto il carattere strutturale ed un accompagnamento pianistico estremamente rarefatto e armonicamente “inutile”.
Gli ultimi minuti sono un vero e proprio delirio tribale, equiparabile alla più terribile delle visioni indotte da chissà quale pozione somministrataci dal misterioso stregone nel profondo di un'Africa selvaggia e bestiale.
Gli strumenti perdono totalmente il loro carattere melodico/armonico, vengono ridotti a puro timbro, pura percussione e tensione: insomma, vengono riportati alle origini rituali e ieratiche della musica.
Poi improvvisamente il tutto svanisce, una quiete dopo la più violenta delle tempeste.

Così comincia e così si conclude il set all’Olatunji Centre of African Culture, il 23 aprile 1967, data dell’ultima apparizione dal vivo di John Coltrane.

venerdì 22 luglio 2011

Spiritual Beggars - Ad Astra (2000)

In realtà avrei voluto parlarvi, più che recensire, di "Return to Zero", ultima fatica in casa Spiritual Beggars uscito in questo 2011, vincente sotto diversi aspetti: prima di tutto l'ingresso di Apollo Papathanasio alla voce, che dal vivo non renderà quanto in studio, ma è pur sempre un cantante di prim'ordine, forte del suo timbro settantiano e ben impostato; poi il nuovo taglio dei brani, meno ruvidi e più smussati, infarciti di fantastici richiami ai gloriosi 70's, dalle chitarre armonizzate alla Ritchie Blackmore's Rainbow, alle fughe solistiche (in realtà ridotte, ma meglio achitettate) dell'iperattivo Per Wiberg all'organo e tastiere; ultimo, una innegabile atmosfera vintage, che dimostra come il leader e chitarrista Michael Amott sia cresciuto più a pane e Deep Purple che a Morbid Angel a colazione come vorrebbero farci credere gli ultimi lavori (sempre meno credibili) degli Arch Enemy.
Non dimentichiamoci poi di una delle copertine più belle che personalmente abbia mai visto.
In realtà ricordiamo (per chi non lo sapesse, ma spero siano in pochi) che Amott militava (e milita, dopo la recente reunion) nei seminali Carcass, vera e propria leggenda della musica estrema, tendente già nel 1985 a combattere per la causa grind, ma più che altro di grande influenza per il death metal più classico (dall'east coast floridiano alle lande svedesi) e meno legato alle scheggie di aforistica follia dei contemporanei Napalm Death.
Come di solito accade, e questa ne è la conferma, i lavori più recenti di una band, ottimi o pessimi che siano, non rispecchiano appieno ciò che la formazione si proponeva alle origini o solo nell'imminente passato.
Facciamo un salto dunque nel 2000, quando gli Spiritual Beggars pubblicano "Ad Astra", assoluto apice nella carriera del gruppo e ottimo da sviscerare in profondità con una recensione.




Possiamo parlare di stoner nel caso degli SB? Effettivamente sarei in dubbio definire il sound della band puramente stoner: in realtà il termine indica tutto e niente, dall'aspetto musicale a quello dell'attitudine, dai richiami alla cultura degli anni sessanta/settanta più acidi, alle influenze grunge (bene o male inserite che siano, più spesso male), alle tematiche allucinate e desertiche, all'aridità effettiva del panorama sonoro disegnato.
In realtà stoner è tutto questo, sicuramente non è un genere, forse un modo di intendere la musica: possiamo quindi dire, alla luce di questo, che il primo album della band era assolutamente stoner, già da una copertina visionaria e non meno audace (in altro senso, intendiamoci!) della peggiore dei Cannibal Corpse; "Ad Astra", di cui vogliamo parlare, non manca di queste condizioni, ma lo stoner di cui penso questo album sia ricco è quello spaziale, quello che dai delirii floydiani di "Interstellar Overdrive" e "Astronomy Domine" ha aperto una strada alla psichedelia cosmica, dagli Ash Ra Tempel in poi.
Ed ecco che ne abbiamo la prova ascoltando "Left Brain Ambassador" o "Let the Magic Talk", dai riff sotterranei e dall'assoluto gusto southern, dall'organo in sottofondo ma inequivocabilmente protagonista, dalle movenze distorte e cadenzate, quasi come se i Kyuss coverizzassero qualche perla psichedelica della california settantiana.
Perfette le aschitetture dei brani e i brevi episodi solistici di un Amott che non ci fa rimpiangere la sua presenza, in qualità di leader maximo, nei sempre meno degni Arch Enemy (non li voglio sentir nemmeno nominare!), preciso e monumentale il lavoro del super tatuato Ludwig Witt dietro le pelli, per non parlare di Wiberg, vero e proprio asso nella manica, un Jon Lord dei giorni nostri.
Ed ecco che i nostri, con la title track, sfornano uno dei più bei brani hard rock (in senso molto allargato) che abbia mai sentito, debitore in egual modo dallo stoner rock vero e proprio e dalla melodia dell'hard rock di fine settanta: il refrain, per quanto semplice, rappresenta il vero e proprio manifesto della band, la breve fuga solistica della chitarra di Amott è da brividi e l'atmosfera creata dal resto degli strumentisti è ineguagliabile.
Ottimo!



Poi, ad un tratto, spunta un altro nome, che quando si parla di stoner non può non figurare: stiamo parlando forse dei Black Sabbath? Esatto.
Con "Wonderful World", soprattutto nella strofa, la band di Ozzy sembra aver avuto un'influenza fondamentale nel riff-rama, dove un ispiratissimo Amott si conferma vero e proprio erede della chitarra anni settanta, come melodista e anche come ritmica.
Stesso discorso per "Escaping the Fools": ascoltate il riff iniziale, e vedrete che ogni mio commento sarà superfluo.
Infine la premiata ditta Amott tenta (riuscendoci!) di creare ad arte la propria "Child in Time", il proprio anthem melodico, sul filo del rasoio tra power ballad e cavalcata epica: "Mantra" è un pezzo fantastico, dove uno "stonerissimo" organo si muove suadente sotto la voce di Spice, mentre un Amott stellare regala poche note, ma quelle (e le uniche) giuste.
E come in "Stairway to Heaven" la seconda parte decolla, tra un killer riff tra i più metal oriented (termine da prendere con le pinze) dell'album, e una serie di soli spartiti tra chitarra e organo che dire perfetti sarebbe un puro eufemismo.
Perfetto.



Quando penso ad Amott penso agli Spiritual Beggars: loro sono, per me, la sua band principale, ciò con cui si esprime al meglio e con i quali crea arte allo stato puro, allucinante ed alienata, ma pur sempre arte.
Se ancora non avete proveduto, procuratevi un disco a caso degli SB, ancor meglio se questo o quello di debutto, mettetelo nel lettore (o meglio, nel giradischi, tanto non rovinerete la puntina tentando di skippare i filler, non ce ne saranno!) e regalatevi un viaggio nelle profondità interstellari dello "seventies stoner".