lunedì 19 settembre 2011

Sopor Aeternus: Perchè la creatura di Anna Varney è un esempio di credibilità.

Sopor Aeternus, ovvero non tutto il (nuovo) gotico nuoce gravemente alla propria credibilità.




Ascoltando l'ultimo album di Anna Varney, seconda parte della trilogia (anzi, trittico) dei fantasmi, ("Triptychon of Ghosts", cominciato con l'ep del 2010 "A Strange Thing To Say") possiamo trarre qualche spunto riflessivo riguardante la evanescente figura dell'artista tedesco/a, sia dal punto di vista dell'evoluzione stilistica che da quello più prettamente qualitativo.

"Have You Seen This Ghost?" rappresenta quello che probabilmente è l'apice stilistico della carriera dell'affascinante creatura Sopor Aeternus, vera e propria entità senza contorni, sospesa in una dimensione fortemente romanticizzata, tra la follia e il disturbo mentale, i sinistri racconti ricolmi di umore nero, esplicite allusioni sessuali e una grandissima carica perturbante.
Non vorrei addentrarmi in una recensione vera e propria; più che altri cercherei di focalizzare l'attenzione su alcuni punti che credo indispensabili nel momento in cui cerchiamo di stendere le basi della credibilità artistico/musicale del progetto Sopor Aeternus.

Fuori dall'utilizzo metaforico Anna Varney è un vero e proprio stagno ricolmo dei più differenti umori: Sopor Aeternus non è una creatura per goth da extreme make up e nemmeno passatempo per metalheads momentaneamente stanchi dell'ondata thrash-core di turno, come molte pubblicazioni (recensioni e discussioni di forum) tendono a mostrare; Sopor Aeternus è un'entità autonoma, totalmente slegata da qualsiasi dinamica di genere, lontana dai lidi della decadenza gotico-cimiteriale e anni luce dall'estetica superficiale del metalhead medio; Sopor Aeternus è una creatura che si prostra in seguito ad un infinito dolore e allo stesso tempo se ne beffa, creando atmosfere di surreale malizia, giocata su doppi sensi e esplicite dichiarazioni erotiche, siano esse rivolte ad un amore naturale o perverso: da questo punto di vista è d'aiuto il testo di "Where The Ancient Laurel Grows", gemma di grande valore contenuta nell'ultimo album:

"Do you think it's strange of me to hope someday he will marry me,
or at least feel the strongest need to hold me when I fall & bleed?
Oh, I wish that he and I were just a little more alike,
or had a tiny Thing in common ...- oh, wouldn't that be nice..."
 
In questa prima strofa riconosciamo una "normale" situazione di amore non corrisposto; esposto in questa maniera può sembrare banale e superficiale, ma non è così: questa è la Varney fragile e profondamente turbata dei primi dischi, gli album del periodo popolarmente denominato "Nascita" (1989-1995).
E' la Varney del sentimento non reciproco, dello struggimento interiore, capace di creare falle così profonde da non poter essere riempite, se non dalla sovrannaturale musica del sinistro ma fondamentale Ensemble of Shadows.
La strofa successiva presenta una certa evoluzione nel discorso tematico: 
 
"Yes, he sleeps nakedly, while I always sleep fully dressed.
He is full of Life, I am mostly depressed.
I guess, that's why I wish that he would want to take a walk with me
through lonely Fields of Sorrow, the only place I've ever seen..."

Il tutto si trasforma nella disperazione della Varney più cimiteriale e abissale, tra ricordi di un passato che dire tormentato sarebbe utilizzare un eufemismo, e desideri che non saranno mai realizzati: ma questo dona una sorta di forza spirituale e d'identità all'artista, tanto da denominare questo periodo come "Rinascimento/Rinascita" (1995-2003).

"In vagued Daydreams I'm dreaming about Stains of his Semen,
put precisely on me, more as a ... "theory".
Sometimes I wish that He would fondly think of me
each time he strokes his Penis...- or when the Clock strickes Three."

Ed ecco infine la Varney dell'ultimo periodo (dal 2003), il periodo della Dea, The Goddess: qui il progetto Sopor Aeternus si rende portatore di una carica non indifferente di sentimenti divisi tra una cupa visione pessimistica dello humour e chiarissimi riferimenti sessuali, come prodotto di una femminilità negata e forse impossibile da attuare; Anna Varney si ribella, è il periodo dove viene riconosciuta come Dea del suo piccolo ma sterminato mondo interiore, regina della perversione e della fragilità, del doppio senso tagliente e della più profonda malinconia sotterranea.
 
Con il capolavoro "Les Fleurs du Mal" (2007) vi era stata una notevole svolta stilistica, indirizzata verso un'estetica musicale fortemente influenzata dalla cultura tardo rinascimentale/secentesca: con questo non si vuole stendere un filo conduttore tra la musica di questi periodi e la produzione dell'artista, ma bensì una serie ideale di rimandi, dall'utilizzo di strumenti d'estrazione barocca o anteriore (clavicembalo, fagotto, oboe, flauti, viola, violoncello ecc), al trattamento della tonalità in minore, all'utilizzo della progressione (vedere il brano "The Virgin Queen"), nonchè ad un'atmosfera che rimanda ad un medioevo mitico, buio e fortemente idealizzato.
 
Anna Varney sarà pure furba (ammesso che sia una lei), acuta dal punto di vista commerciale, ma di indubbio valore artistico: Sopor Aaeternus non è il prodotto di una cultura gothic elitaria, pacchiana, facile da strumentalizzare e basata sui soliti quattro luoghi comuni creati apposta per essere demonizzati dai media.
Sopor Aeternus è un progetto che da un ventennio crea ottima musica, che può essere compresa solo facendo lo sforzo di pensarla come unica, indipendente e fortemente "irreale": se per un momento ci rendiamo conto di come Anna Varney non possa essere (ma possiamo sbagliarci) quello che effettivamente dichiara di essere, l'incanto svanisce.
Sopor Aeternus può essere compreso solo se ricordiamo che la sua musica è dettata dall'Ensemble delle Ombre, e come tale è tanto oscura quanto evanescente e mutante, perfetta medicina contro le Disfunzioni Spirituali.



 

 

 


mercoledì 14 settembre 2011

Ipotesi di analisi della OST "The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring" di Howard Shore

Premessa: il lavoro svolto è presentato senza pretese, se non quella di fornire una possibile interpretazione tematica dell'opera.
Qualche riflessione: l'analisi si basa sulla ricerca di leitmotive accostabili a personaggi, luoghi, oggetti, situazioni e circostanze; il metodo di utilizzo dell'orchestra da parte del compositore permette facilmente di trovare alcune linee guida: prima di tutto la presenza del motivo conduttore, la sua variazione e riproposizione; in secondo luogo è di aiuto l'utilizzo dell'orchestra in un ottica da poema sinfonico: con questo non voglio accostare l'opera alla tradizione del tone poem lisztiano/straussiano, ma sottolineare la grande indipendenza dalla pellicola che la colonna sonora raggiunge grazie al trattamento dei parametri della stessa.
Per ulteriori approfondimenti rimando alle note.




Analisi:
(In grassetto i temi qualora appaiano per la prima volta)


 

1 _The Prophecy: tema originale
2:17 tema Anello


2_Concerning Hobbits: tema della Contea (flauto)
00:28 variazione 1 - gli Hobbit (violino)
00:43 X primo cenno del tema della Compagnia 1 (nasce dale tema Contea)
01:18 variazione 2 - (percussioni e clavicembalo)
01:44 tema X cellula generatrice (archi)
01:57 ripresa variazione 2
02:15 ripresa tema della Contea


3_Shadow of The Past: tema originale (tema Anello 2?)
01:12 tema di Mordor 1
Sezione di ottoni protagonisti
02:15 tema Anello (legni poi ottoni)

                                                                
4_Treason of Isengard: tema originale variazione del tema dell’Anello (voci bianche in pp)
00:40 tema dell’Anello - accenni
Tema composto:
01:25 tema della Contea (ottoni)
01:40 tema del Viaggio della Compagnia (carattere eroico)
Esposizione e variazione in ff (ottoni)
02:55 tema di Isengard/Saruman? (coro)


5_The Black Rider: tema della Contea variato ritmicamente e sviluppato
1:13 proposizione tema di Isengard/Saruman?
1:41 tema dei Cavalieri (Nazgul 1)


6_At The Sign of The Prancing Pony: esposizione ed elaborazione tema dell’Anello
1:55 tema dei Cavalieri (Nazgul 1)
2:40 prima apparizione dell’incipit del tema di Mordor 2


7_A Knife In The Dark: 00:26 tema dei Cavalieri (Nazgul 1)
01:39 tema di Mordor 2 (ottoni-ostinato percussioni) sfumato
02:17 tema dell’Anello voce bianca e coro, variato e sviluppo
02:48 tema di Mordor 2 variazione con ostinato
03:15 tema dell’Anello


8_Flight to The Ford: esposizione di temi originali con accenni al tema dell’Anello
02:28 tema dei Cavalieri (Nazgul 1) in ff, ottoni archi vorticosi
03:00 tema Fanfara
 

9_Many Meetings 00:00 tema di Gran Burrone (carattere sospeso-archi-coro)
00:40 tema della Contea (archi, poi legni)
01:22 tema della Compagnia 1 (carattere lirico)
01:50 tema della Contea (legni)
02:07 ripresa del tema di Gran Burrone (orchestrale)
02:26 ripresa del tema della Contea (orchestrale)


10_The Council of Elrond: 00:00 tema del Consiglio, può considerarsi tema G.Burrone più Anello
00:37 tema di Aragorn e Arwen
02:25 tema del Viaggio della Compagnia
02:56 tema della Contea (originale, poi orchestrale variato lievemente)
03:17 ripresa tema Viaggio della Compagnia
 

11_The Ring Goes South: tema originale
00:25 tema della Compagnia unito a spunti del tema della Contea
01:15 tema del Viaggio della Compagnia


12_A Journey in The Dark: tema originale
01:21 tema dell’Anello, elaborazione (legni)
02:50 culmine del crescendo di una lunga elaborazione sul tema della
Compagnia
03:19 episodio tematico di Moria
 

13_The Bridge of Khazad Dum: 00:00 tema del Viaggio della Compagnia più elaborazione
Lunga elaborazione tematico-descrittiva dell’episodio di Moria
03:37 ripresa del tema del Viaggio della Compagnia
03:57 ripresa ed elaborazione del tema di Moria
04:43 tema della Compagnia 1 elaborato (voce-archi)
 

14_Lothlorien: 00:00 tema di Lothlorien (?)
Lunga elaborazione del suddetto
03:53 accenno al tema dell’Anello (corni francesi-archi)


15_The Great River: 00:00 tema originale (carattere fortemete elegiaco)
Accenno in secondo piano del tema del Viaggio della Compagnia
00:50 accenno del tema del Viaggio della Compagnia più elaborazione
01:53 tema dell’Anello X (evoluzione del tema Anello), più definito.
 

16_Amon Hen: 00:00 tema di Amon Hen a carattere sospeso
00:43 elaborazione di un tema a carattere eroico
02:07 tema di Mordor 2 (ottoni-ostinato ritmico)
02:36 tema-elegia della Morte di Boromir ?
04:28 tema in pp-p del Viaggio della Compagnia
 

17_The Breaking of The Fellowship: 00:22 tema della Compagnia (orchestrale)
01:31 elaborazione 1 fondamentale del tema suddetto
02:14 tema della Contea (flauto-archi)
03:04 corta elaborazione 2 malinconica del tema
03:34 tema del Viaggio della Compagnia
03:54 elaborazione 3 del tema della Compagnia - tema Rottura
04:39 tema della Contea
05:19 cantato - elaborazione Contea più Compagnia
06:10 tema del Viaggio della Compagnia
06:33 ripresa del cantato




NOTE:1- Il tema della compagnia si presenta costantemente variato: tuttavia esso nasce dalla cellula X presentata per la prima volta come facente parte del tema della Contea.
2- Il tema dell’Anello, sebbene ritorni chiaramente, è anch’esso oggetto di costanti variazioni: la cellula tematica che compare a 1:53 di “The Great River”, può considerarsi come la forma definitiva.
3- L’episodio di Moria è trattato diversamente: non vi sono temi riscontrabili, definiti e particolari, ma vi è una volontà descrittiva; è da considerarsi una sorta di breve poema sinfonico mancante di leitmotive.
4- I due temi di Mordor possono anche essere considerati rappresentanti tutto ciò che è contrapposto al bene; fanno eccezione le apparizioni dei Nazgul che presentano un proprio leitmotiv.
5- Il tema del Viaggio della Compagnia compare prima che essa si formi definitivamente: nei primi numeri dell’opera, infatti, è consueto ascoltare accenni a temi riguardanti fatti/personaggi che devono ancora essere presentati.
6- Lo sviluppo tematico può avvenire in 2 diversi modi: il primo è quello ritmico-melodico-timbrico; il secondo, più utilizzato, è quella della costante rielaborazione della cellula iniziale per approdare ad una nuova situazione melodica, ma ugualmente rappresentativa.
7- La genesi tematica avviene attraverso lo sfruttamento della timbricità: i temi spesso saranno riproposti dagli stessi strumenti; tutto questo, sebbene palese, può non considerarsi giusto nell’ottica della variazione tematica-timbrica.

domenica 21 agosto 2011

Sonny Rollins - Incisioni per la Blue Note (1957) - Prima Parte


La fitta discografia di Sonny Rollins vede l’intensificazione delle incisioni, e quindi delle uscite, concentrarsi in alcuni periodi particolarmente prolifici (sebbene l’attività del sassofonista sia stata tutt’altro che discontinua): tra il 1956 e il 1957 Rollins incide in qualità di leader ben 13 album.
Le registrazioni del 1956 vedono il sassofonista legato alla Prestige, etichetta che lo accompagnava fin dagli esordi ma che abbandonerà lo stesso anno per avvicinarsi a diverse realtà discografiche di crescente notorietà.
Tra i lavori più significativi usciti per la Prestige ricordiamo “Tenor Madness” e “Saxophone Colossus” (1956), pietre miliari della letteratura per sassofono nonché dischi imprescindibili per tracciare un‘ipotetica storia del jazz: il primo vedeva Rollins affiancato da un giovane Coltrane nel celeberrimo blues da cui l’album prende il titolo; a completare la formazione partecipavano Philly Joe Jones alla batteria, Red Garland al piano e Paul Chambers al contrabbasso: nientemeno che l’affidabilissima sezione ritmica che affiancava nello stesso periodo Miles Davis.
Con “Saxophone Colossus” vediamo un Rollins alle prese con quelli che saranno due punti fermi nella sua carriera di musicista/compositore, certamente guidato da gusti personali e interessi legati alle origini della musica afroamericana, anche dal versante caraibico: il calypso, che con “St. Thomas” raggiunge forse l’apice della sua “messa in jazz”, e il blues (specialmente in minore), dove il musicista sembra voler pagare tributo alle origini attraverso l’utilizzo di una struttura “elementare” e di un gusto melodico decisamente più asciutto e diretto (in questo album ricordiamo “Strode Rode”).

Lo scioglimento del legame con la Prestige porta Rollins verso la realtà della Blue Note, etichetta con la quale lavorerà per un unico ma intensissimo anno (1957), che vede l’uscita di quattro album registrati e missati sotto l’ala protettrice del sempre più ricercato (a ragione) Rudy Van Gelder.
Sonny entra nello studio di Van Gelder, ad Hackensack (New Jersey), nel dicembre del ‘56, affiancato da una formazione completamente rinnovata: Max Roach alla batteria (presente però in “Saxophone Colossus”), Wynton Kelly al piano, Gene Ramey al basso e un giovane Donald Byrd alla tromba, non ancora avviato alla propria carriera da leader.
L’album verrà intitolato semplicemente “Volume One”.
Durante la sessione del 16 dicembre vennero registrati cinque brani: “Decision”, blues minore di altissimo livello, il cui tema, basato su di una serie di obbligati ritmici, viene suonato da Rollins e Byrd all’unisono creando un effetto di straordinaria espressività; “How Are Things in Glocca Morra?” (Lane/Harburg), ballad tra le favorite del sassofonista, grazie forse alla sua natura sognante, all'incedere cullante e alla grande liricità del tema in entrambe le sezioni; “Sonnysphere”, di gran lunga il pezzo più bop del disco, ritmicamente sostenuto e dal tema essenziale e conciso, esposto parzialmente ma ripreso completamente per il finale; da segnalare, in questo brano, le grandissime prove solistiche dei musicisti; i pezzi più “deboli” dell’album sono sicuramente “Bluesnote” e “Plain Jane”, che sebbene siano eseguiti con maestria non raggiungono il livello di coinvolgimento dei restanti brani.



Breve parentesi con la Contemporary (per le session di “Way Out West”, affiancato solamente da Ray Brown e Shelly Manne) e Sonny rientra subito in studio con Van Gelder, per le registrazioni di quello che sarà “Volume Two”.
Il secondo album per la Blue Note è forse quello che avvicina di più la figura di Rollins al bop, distogliendolo per un attimo dal grandissimo interesse per la rielaborazione in chiave jazzistica (ma non necessariamente una complicazione) della song americana e della canzonetta da film/musical, oltre che dalla crescente influenza che il calypso, e i ritmi caraibici in generale, esercitava sulla grandissima ecletticità dell’artista.
Ad Aprile ‘57 Sonny è ad Hackensack con Paul Chambers, Art Blakey alla batteria, mentre al piano troviamo la compresenza di due musicisti di diversa estrazione: Monk e Horace Silver; al fianco del sassofonista troviamo questa volta il grandissimo J.J. Johnson al trombone (il legame che legava Rollins al trombonista era decisamente saldo: ricordiamo infatti che un Rollins ancora diciannovenne figura nelle registrazioni di alcuni pezzi di Johnson, ad esempio nella celebre “Opus V”).


Solo i due brani di apertura portano la firma di Rollins: “Why Don’t I” e “Wail March”.
Il primo vede l’esposizione di un tema basato su di una semplice cellula ritmica sopra ad una kicks mantenuta dalla sezione ritmica; dopo il tema il primo solo spetta allo stesso Rollins, che sembra trovarsi completamente a suo agio in una struttura bop; il solo di Johnson, che segue immediatamente quello del leader, si distingue per la naturalezza con cui il musicista si muove tra gli accordi suonati da Silver, oltre che da un bellissimo timbro certamente valorizzato dall’abilità tecnica di Rudy Van Gelder.
Il brano si conclude dopo i consueti scambi di quattro battute (in questo caso) con la batteria, vera e propria formula strutturale utilizzata da Rollins nella maggior parte dei pezzi in up tempo.
“Wail March” presenta un tema tanto particolare quanto bello: la prima parte (il tema vero e proprio) vede i fiati suonare su di una serie di rullate quella che potrebbe benissimo definirsi una marcia “distorta”; l’esposizione continua con l’entrata di J.J. Johnoson sopra una ritmica che muta in uno swing frenetico ed eccitante, fino poi a sfociare direttamente in assolo senza cesure o cadenze evidenti; l’assolo di Johnson in questo brano è sicuramente tra i più interessanti e validi dell’intero disco.
Sono presenti anche due pezzi di Monk, “Misterioso” e “Reflections”, che prendono qui una quasi inedita veste bluesy, accentuata dal carattere dei soli dei fiatisti.
Chiudono due song che fungono da legame con gli interessi principali di Rollins (“You Stepped Out Of a Dream” e “Poor Butterfly”) , ma in mano a musicisti quali Silver, Blakey e Chambers risultano quasi stravolti e riportati ad un altro livello, trattati come se i musicisti avessero in mano gli strumenti per mutare materiale popolare in strutture hard bop.
“Volume Two” vede quindi il musicista affacciarsi a stili e strutture decisamente distanti dagli standard ai quali era abituato, e ama tutt’ora cimentarsi: non a caso proporrei di intendere questo disco quasi come una sperimentazione, un opera creata dalla curiosità e dalla voglia di espandere il proprio range di influenze ed interessi.
Grandissime sono le prove solistiche di un Monk che si distingue anche nell’accompagnamento, oltre che di un Blakey che dimostra una duttilità fuori dal comune (ascoltare la naturalezza con cui il tempo viene dimezzato, oppure la limpidezza dei passaggi durante gli scambi di quattro o otto battute).



Fine Prima Parte

martedì 26 luglio 2011

John Coltrane e il concerto all'Olatunji (1967)


Il 23 aprile 1967, ad Harlem, più precisamente nella sede dell’OCAC (“Olatunji Centre of African Culture”, ente creato e promosso per volontà del batterista/percussionista Babatunde Olatunji, vivacemente attivo anche nel campo del sociale) si teneva un evento di particolare importanza: John Coltrane avrebbe calcato il palcoscenico con la sua band per l’ultima volta, prima di trovare la morte il diciassette luglio successivo.
La seconda metà degli anni ‘60 avevano visto il musicista avvicinarsi sempre con più entusiasmo, e non senza riscontro nei risultati, alle nuove correnti che sarebbero poi confluite nella definizione spesso abusata di free jazz; la svolta nella carriera artistica e nella sfera personale che aveva portato alla creazione di uno dei massimi capolavori del sassofonista, “A Love Supreme” (1964), sembra, già dai mesi successivi, destinata a ripetersi, trasportando gli interessi del musicista verso quella nuova forma di espressione jazzistica che, comunque, non mancavano di procurargli interrogativi e perplessità.

L’avanguardia free, che vedeva abili musicisti nonché audaci sperimentatori come Ornette Coleman, Archie Shepp e Albert Ayler in prima linea, sembrava portare all’interno del linguaggio jazz quello che fino a quel momento (secondo le opinioni dei giovani strumentisti) mancava: la libertà formale, il dissolvimento dei vincoli armonici e melodici, la destrutturazione della forma canzone, la massima elasticità nelle sezioni solistiche potevano essere considerati il nuovo fine.
Coltrane aveva avuto contatti diretti con Archie Shepp già nel 1964, quando il giovane sassofonista venne invitato dal più navigato collega ad unirsi alle sessioni di registrazione per “A Love Supreme”: in realtà Shepp sarà presente solo la seconda serata, il 10 dicembre, dove insieme al bassista Art Taylor verrà registrata una versione alternativa della prima parte della suite (“Acknowledgement”) ma che non confluirà poi nel master preparato da Van Gelder.
Non si può dire che Coltrane non rimase profondamente colpito da questo nuovo approccio strumentale e comunque generale, questa new thing che sembrava aprirsi una strada sempre più ampia tra i musicisti più autorevoli: le collaborazioni al di fuori dal cosiddetto quartetto classico (completato da McCoy Tyner al piano, Elvin Jones alla batteria, e Jimmy Garrison al contrabbasso) iniziarono a concentrarsi proprio tra questi ultimi.


Pharoah Sanders

 Coltrane strinse un profondo rapporto personale e professionale con Pharoah Sanders, che lo accompagnerà anche nella nuova band fino alla fine della carriera: nel 1965 la nuova formazione allargata, vedeva lo stesso Sanders a fianco di Shepp, la presenza di due contrabbassi (Taylor e Garrison) oltre che due contraltisti (Marion Brown e John Tchicai) e due trombe (Hubbard e Dewey Johnson).
Ebbe così inizio quello che generlamente viene definito come il periodo free di Coltrane.
E’ più che mai vivo in Coltrane l'insieme di conseguenze e cambiamenti naturalmente seguiti alla svolta spirituale del 1964, prima intima e poi anche artistica, che aveva indotto nel musicista un nuovo modo di rapportarsi al mondo, arte compresa: sarebbe stato lecito pensare, infatti, che il crescente interesse verso il free e le nuove forme di espressione connesse, “violente” ma non prive di difficoltà tecniche, avessero riportato l’attenzione dell’artista unicamente allo studio e all’esercizio musicale.
La spiritualità è ancora marcata nell’animo di Coltrane, e questo traspare nei titoli delle opere più che in altre manifestazioni: “Ascension”, che nel 1965 inaugura la nuova formazione e il nuovo stile, “Meditations” (1966) che contiene brani come “The Father and The Son and The Holy Ghost”.



Archie Shepp

Altra grandissima fonte di ispirazione, sia astratta sia puramente diretta, è la cultura, non esclusivamente musicale, africana; in realtà questa non è prerogativa solo dell’ultimo Coltrane, anzi, sarà caratteristica anche per il Miles Davis dal ‘69 in poi, che seppur virando verso il jazz elettrico e una fusion music ante litteram, tenderà sempre a inserire musicalmente e concettualmente elementi di cultura africana nelle sue opere.
Già nel 1961 era stato pubblicato “Africa/Brass”, vero e proprio esperimento che univa i primi sintomi di questo ossessionante interesse del musicista ad una sezione fiati in stile big band: non dimentichiamo che nelle sessioni di registrazione partecipò lo stesso Eric Dolphy, grande influenza per il Coltrane del periodo di cui ci stiamo occupando.
Sempre per la Impulse!, nel 1965, esce “Kulu Se Mama”, testimonianza di come l’interesse verso la new thing corra parallelo ad una costante ricerca di ritmicità e musicalità nelle pulsazioni “libere” ma ossessive della musica popolare africana (non è meno forte, in Coltrane, l’associazione tra il continente africano e la sua cultura alla costante ricerca spirituale a cui il sassofonista si dedicherà fino alla fine della sua carriera/vita).

Torniamo quindi al centro di Olatunji, nel bel mezzo di Harlem, non a caso cuore della cultura afro-americana nella città di New York (e, se vogliamo, simbolicamente, di tutte le metropoli statunitensi).
Il sassofonista, ancora giovane, ma prostrato dalle fatiche della routine di musicista e ancora più segnato da un passato tormentato e costellato di esperienza negative (su tutte la dipendenza agli stupefacenti), viene affiancato sul palco da una formazione fedele, che lo seguiva dal dissolvimento del mitico quartetto classico: la moglie Alice al piano, primo e unico rimpiazzo dalla di partita dell’amico McCoy, Garrison al basso, Rashied Ali dietro le pelli, Sanders al tenore e Algie DeWitt ai tamburi batà.
I pezzi in scaletta sono due: a testimonianza del “nuovo” Coltrane, quello spirituale, africano, sospeso tra modalità esotica e free avanguardistico vi è “Ogunde”, splendido brano tratto da “Expressions” (1967); a ricordare il “vecchio” Coltrane, quello che si misurava con gli standards e le songs tradizionali, che ancora non vedeva all’orizzonte la svolta del 1964 troviamo “My Favorite Things”, brano di Rodgers & Hammerstein tratto dal musical “The Sound of Music” (1959).
Quest’ultimo è un pezzo a cui Coltrane era molto legato, e sarà una costante fissa in tutte le esibizioni del sassofonista dai primi anni ‘60 in poi.





Entrambi i brani vengono dilatati a dismisura (28 minuti il primo e circa 34 per il secondo), raggiungendo un apice di libertà espressiva e solistica all’epoca non ancora eguagliato: i 28 minuti di “Ogunde” solo in minima parte sono dedicate ad un’improvvisazione tematica, coerente con la complicata seppur affascinante melodia del pezzo, lasciando poi spazio alla summa di quello che Coltrane aveva appreso negli ultimi anni passati in contatto con l’avanguardia.
I soli dello stesso e di Sanders si trasformano in un concentrato di gemiti, latrati, fischi e lamenti, talvolta simili a grida di disperazione, talvolta a ipnotiche suggestioni tribali.
Sopra ad un beat incostante, fluttuante e spesso accostabile ad una sospensione del tempo, si sviluppano lunghe frasi di pura timbricità distorta, il quale carattere quasi esorcizzante sembra acquietato con l'ingresso in solo del piano: in realtà il tutto viene riconfermato, con Alice Coltrane che distribuisce note su note, decisamente più attenta alla resa percussiva della musica che a quella effettivamente melodica.
Dopo l’inciso pianistico è di nuovo turno dei sassofoni: ed è di nuovo l’apoteosi del free, del carattere sciamanico della nuova musica di Coltrane.
Lo stesso accade con “My Favorite Things”, aperta da una lunghissima introduzione di Garrison al contrabbasso: il tema viene distorto e capovolto, negato e calpestato, sempre sopra ad una ritmica in piena libertà, tra un beat che perde del tutto il carattere strutturale ed un accompagnamento pianistico estremamente rarefatto e armonicamente “inutile”.
Gli ultimi minuti sono un vero e proprio delirio tribale, equiparabile alla più terribile delle visioni indotte da chissà quale pozione somministrataci dal misterioso stregone nel profondo di un'Africa selvaggia e bestiale.
Gli strumenti perdono totalmente il loro carattere melodico/armonico, vengono ridotti a puro timbro, pura percussione e tensione: insomma, vengono riportati alle origini rituali e ieratiche della musica.
Poi improvvisamente il tutto svanisce, una quiete dopo la più violenta delle tempeste.

Così comincia e così si conclude il set all’Olatunji Centre of African Culture, il 23 aprile 1967, data dell’ultima apparizione dal vivo di John Coltrane.

venerdì 22 luglio 2011

Spiritual Beggars - Ad Astra (2000)

In realtà avrei voluto parlarvi, più che recensire, di "Return to Zero", ultima fatica in casa Spiritual Beggars uscito in questo 2011, vincente sotto diversi aspetti: prima di tutto l'ingresso di Apollo Papathanasio alla voce, che dal vivo non renderà quanto in studio, ma è pur sempre un cantante di prim'ordine, forte del suo timbro settantiano e ben impostato; poi il nuovo taglio dei brani, meno ruvidi e più smussati, infarciti di fantastici richiami ai gloriosi 70's, dalle chitarre armonizzate alla Ritchie Blackmore's Rainbow, alle fughe solistiche (in realtà ridotte, ma meglio achitettate) dell'iperattivo Per Wiberg all'organo e tastiere; ultimo, una innegabile atmosfera vintage, che dimostra come il leader e chitarrista Michael Amott sia cresciuto più a pane e Deep Purple che a Morbid Angel a colazione come vorrebbero farci credere gli ultimi lavori (sempre meno credibili) degli Arch Enemy.
Non dimentichiamoci poi di una delle copertine più belle che personalmente abbia mai visto.
In realtà ricordiamo (per chi non lo sapesse, ma spero siano in pochi) che Amott militava (e milita, dopo la recente reunion) nei seminali Carcass, vera e propria leggenda della musica estrema, tendente già nel 1985 a combattere per la causa grind, ma più che altro di grande influenza per il death metal più classico (dall'east coast floridiano alle lande svedesi) e meno legato alle scheggie di aforistica follia dei contemporanei Napalm Death.
Come di solito accade, e questa ne è la conferma, i lavori più recenti di una band, ottimi o pessimi che siano, non rispecchiano appieno ciò che la formazione si proponeva alle origini o solo nell'imminente passato.
Facciamo un salto dunque nel 2000, quando gli Spiritual Beggars pubblicano "Ad Astra", assoluto apice nella carriera del gruppo e ottimo da sviscerare in profondità con una recensione.




Possiamo parlare di stoner nel caso degli SB? Effettivamente sarei in dubbio definire il sound della band puramente stoner: in realtà il termine indica tutto e niente, dall'aspetto musicale a quello dell'attitudine, dai richiami alla cultura degli anni sessanta/settanta più acidi, alle influenze grunge (bene o male inserite che siano, più spesso male), alle tematiche allucinate e desertiche, all'aridità effettiva del panorama sonoro disegnato.
In realtà stoner è tutto questo, sicuramente non è un genere, forse un modo di intendere la musica: possiamo quindi dire, alla luce di questo, che il primo album della band era assolutamente stoner, già da una copertina visionaria e non meno audace (in altro senso, intendiamoci!) della peggiore dei Cannibal Corpse; "Ad Astra", di cui vogliamo parlare, non manca di queste condizioni, ma lo stoner di cui penso questo album sia ricco è quello spaziale, quello che dai delirii floydiani di "Interstellar Overdrive" e "Astronomy Domine" ha aperto una strada alla psichedelia cosmica, dagli Ash Ra Tempel in poi.
Ed ecco che ne abbiamo la prova ascoltando "Left Brain Ambassador" o "Let the Magic Talk", dai riff sotterranei e dall'assoluto gusto southern, dall'organo in sottofondo ma inequivocabilmente protagonista, dalle movenze distorte e cadenzate, quasi come se i Kyuss coverizzassero qualche perla psichedelica della california settantiana.
Perfette le aschitetture dei brani e i brevi episodi solistici di un Amott che non ci fa rimpiangere la sua presenza, in qualità di leader maximo, nei sempre meno degni Arch Enemy (non li voglio sentir nemmeno nominare!), preciso e monumentale il lavoro del super tatuato Ludwig Witt dietro le pelli, per non parlare di Wiberg, vero e proprio asso nella manica, un Jon Lord dei giorni nostri.
Ed ecco che i nostri, con la title track, sfornano uno dei più bei brani hard rock (in senso molto allargato) che abbia mai sentito, debitore in egual modo dallo stoner rock vero e proprio e dalla melodia dell'hard rock di fine settanta: il refrain, per quanto semplice, rappresenta il vero e proprio manifesto della band, la breve fuga solistica della chitarra di Amott è da brividi e l'atmosfera creata dal resto degli strumentisti è ineguagliabile.
Ottimo!



Poi, ad un tratto, spunta un altro nome, che quando si parla di stoner non può non figurare: stiamo parlando forse dei Black Sabbath? Esatto.
Con "Wonderful World", soprattutto nella strofa, la band di Ozzy sembra aver avuto un'influenza fondamentale nel riff-rama, dove un ispiratissimo Amott si conferma vero e proprio erede della chitarra anni settanta, come melodista e anche come ritmica.
Stesso discorso per "Escaping the Fools": ascoltate il riff iniziale, e vedrete che ogni mio commento sarà superfluo.
Infine la premiata ditta Amott tenta (riuscendoci!) di creare ad arte la propria "Child in Time", il proprio anthem melodico, sul filo del rasoio tra power ballad e cavalcata epica: "Mantra" è un pezzo fantastico, dove uno "stonerissimo" organo si muove suadente sotto la voce di Spice, mentre un Amott stellare regala poche note, ma quelle (e le uniche) giuste.
E come in "Stairway to Heaven" la seconda parte decolla, tra un killer riff tra i più metal oriented (termine da prendere con le pinze) dell'album, e una serie di soli spartiti tra chitarra e organo che dire perfetti sarebbe un puro eufemismo.
Perfetto.



Quando penso ad Amott penso agli Spiritual Beggars: loro sono, per me, la sua band principale, ciò con cui si esprime al meglio e con i quali crea arte allo stato puro, allucinante ed alienata, ma pur sempre arte.
Se ancora non avete proveduto, procuratevi un disco a caso degli SB, ancor meglio se questo o quello di debutto, mettetelo nel lettore (o meglio, nel giradischi, tanto non rovinerete la puntina tentando di skippare i filler, non ce ne saranno!) e regalatevi un viaggio nelle profondità interstellari dello "seventies stoner".

martedì 28 giugno 2011

The Velvet Underground - White Light/White Heat (1968)




Con l’uscita del primo album in studio, “The Velvet Underground and Nico” (1967), la band guidata da Lou Reed si impone nel panorama del rock’n’roll come una vera e propria realtà d’avanguardia nel periodo di massimo splendore della cosiddetta british invasion, senza dimenticare l’incontenibile ondata beat che stava per travolgere (o aveva già travolto, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta) diversi paesi europei.
Non a caso le influenze europea del folk rock britannico, delle acidità del beat più intransigente che rivaleggiava in visionarietà con la psichedelia californiana, della forma canzone semplice e più che orecchiabile per certi aspetti trovano posto all’interno dei brani di questo disco d’esordio.
La figura di Nico, al secolo Christa Paffgen, attrice e modella, oltre a cantautrice di qualità ancora piuttosto discussa, trova concretezza in queste influenze che al giorno d’oggi verrebbero definite decisamente “commerciali”.
Brani come “I’ll be Your Mirror” oppure “All Tomorrow’s Parties”, pur non sfigurando affatto essendo inoltre opera dello stesso Reed, ne sono la prova.
Non a caso fu lo stesso Andy Wharol, produttore dell’album (e autore del celeberrimo artwork), a volere l’ingresso della modella tedesca nella formazione, fiutando un probabile successo dovuto anche all’immagine oltre che al livello artistico della proposta.
Il “sodalizio” con Nico durerà solamente fino all’anno successivo: la cantante lascerà la band, e dato il suo effettivo apporto alla formazione non verrà rimpiazzata.


Nel 1968, quindi, la formazione dei Velvet Underground vede oltre a Lou Reed Sterling Morrison alla chitarra e al basso, Maureen Tucker alla batteria e John Cale alla viola, all’organo e alle seconde voci.
Continua il rapporto artistico con Wharol, che ideerà anche in questo caso la copertina, sotto le direttive dello stesso Lou Reed.
La collaborazione con Cale, violista e profondo studioso e conoscitore di musica contemporanea (ricordiamo la collaborazione con John Cage), cambia rotta: da una semplice militanza dell’atipico musicista all’interno della band, ad un vero e proprio sodalizio con il leader.
Il sound subisce alcune mutazione decisive, le quali saranno fondamentali per la maturazione degli ideali artistici ed estetici dello stesso Reed solista: il tutto viene reso più scarno, freddo e diretto, la produzione di bassissima qualità sembra essere quasi volontaria, la melodia tradizionale viene abbandonata per un gusto perturbante delle assonanze, i suoni acquistano un sapore meccanico e talvolta inanimato.
La title track, che apre l’album, offre subito alcuni punti di riflessione: fondamentalmente da considerarsi come un intro, è ancora legata al rock’n’roll in senso stretto, definizione che Reed sembra voler rifiutare a priori già dagli esordi dei VU.
Non a caso il brano finisce con un feedback distorto ed elettronico quasi a volere cancellare e negare quanto detto in precedenza.
“The Gift” è una prova della via originale e assolutamente ineguagliabile (al tempo) intrapresa da Lou Reed: sopra una base ipnotica e ripetitiva, fondamentalmente percussiva, una voce recitata narra la tragica (o tragi-comica, secondo quel senso del perturbante di cui abbiamo accennato prima) vicenda di un certo Waldo Jeffers, vittima di un fatale incidente occorso in seguito all’idea di impacchettarsi e spedirsi alla fidanzata.
La “sorpresa” avrà risvolti decisamente inquietanti.
Da sottolineare come la voce sia priva di qualsiasi inflessione emotiva, lasciandosi andare al massimo in un tono assolutamente stereotipato durante i dialoghi riferiti nella cronaca dell’incredibile fatto.
L’atmosfera sembra rilassarsi con “Lady Godiva’s Operation”: la ripetitività ipnotica della musica è resa al suo minimo, la linea melodica vocale torna ad una sorta di cantabilità accostabile a quella di certi brani dell’album precedente.
Con la conclusione del pezzo ci rendiamo conto che il senso di tranquillità e rilassatezza non era altro che frutto di un’abile illusione di Reed e compagni, capaci di rendere più che mai viva la sensazione di straniamento data dalla ripetitività sonora, anche se in questo caso più dilatata rispetto al caso precedente.
  



I due minuti circa di “Here She Comes Now” sembrano presentarci una ballata, o meglio, quella che può essere considerata una parodia di essa.
Con “I Heard Her Call My Name” ci troviamo di fronte a soluzioni che vedeno l'inserimento, all’interno della struttura del rock’n’roll, del gusto “reediano” per il rumore bianco, i feedback, le distorsioni esasperate, che sarà il punto principale di quel manifesto di pura libertà artistico-estetica che prende il nome di “Metal Machine Music: An Electronic Instrumental Composition” (1975).
“Sister Ray”, la traccia conclusiva, vera e propria prova di volontà e perseveranza artistica di Lou Reed, mostra nei suoi diciassette minuti quali siano i punti principali (che naturalmente abbiamo già trattato) della composizione del grande artista.
Ripetitività di cellule ritmico-melodiche brevi (poche battute, se non addirittura un paio di accordi), intrusione strumentali di puro rumorismo, utilizzo della distorsione non come possibilità sonora ma come elemento annichilente, stravolgimento della forma e della natura del rock’n’roll, tematiche che con uno sguardo freddo e distaccato puntano verso i lati più paradossali e perversi dell’uomo: questo è l’universo sonoro in cui i The Velvet Underground muovono i primi passi, e smuovono il produttivo ma stagnante oceano del rock mondiale.

giovedì 23 giugno 2011

Jazz Time #2: Ammons & Stitt, Parker, J.J. Johnson, Armstrong & Ellingtone.

Anche questa volta vorrei portare l'attenzione su qualche album più o meno celebre della storia del jazz, cercando per ognuno di sottolineare le caratteristiche principali e i punti salienti in modo da dare un'idea il più possibile completa in poche righe.


Iniziamo con un vero e proprio capolavoro, direttamente dal 1961, "Boss Tenors: Straight Ahead from Chicago", che vede come protagonisti due grandi del sax quali Sonny Stitt (alto e tenore) e Gene Ammons (tenore).
La line up è completata da Buster Williams al basso, John Houston al piano e George Brown dietro le pelli.
Tra i brani proposti in questo album troviamo due tra i più amati e suonati standards di sempre, "There is no Greater Love", qui in una veste brillante e dinamica con continui scambi tra i due leader che sfruttano la struttura ben delineata del brano, e "Autumn Leaves".
Quest'ultima, nelle mani sapienti di Stitt e Ammons, acquista un sapore decisamente bluesy rendendo particolarmente originale l'esecuzione.
Troviamo poi due blues firmati entrambi da Gene Ammons, il meduim "The One Before This" e il ben più sostenuto "Blues Up and Down" (che vede la collaborazione di Sonny Stitt alla scrittura del brano).
I due musicisti continuano a rincorrersi con continui scambi più o meno ampi, riuscendo però a mantenere un'assoluta continuità formale sulla struttura dei brani.
Ed è un atro blues, uno slow, a chiudere l'album, questa volta accreditato a Sonny Stiss: "Counter Clockwise"; ci muoviamo sulle coordinate del vero e proprio roots blues, che riacquista temporaneamente accenti bop nei chorus dove il tempo viene raddoppiato.
Disco bellissimo e fondamentale, che segna l'incontro tra due grandi sassofonisti alle prese con brani tutt'altro che "difficili" o "for musician only", per parafrasare il titolo di un famoso album bebop.





Sembrerà banale dirlo, ma di Charlie Parker non si finirà mai di parlare; noi oggi lo facciamo prendendo in esame una bellissima registrazione datata 1952, una grande jam session nella quale, al fianco di Bird, troviamo musicisti del calibro di Ben Webster (sax tenore), Ray Brown (contrabbasso), Oscar Peterson (piano) e dalla swinging guitar di Barney Kessel, oltre ad una ulteriore manciata di artisti.
Quattro brani (dalla durata media di quindici minuti) per un'ora di musica; cominciamo subito con il ritmo trascinante di "Jam Blues", basato su una semplicissima struttura blues in Si bemolle sopra la quale i musicisti hanno la possibilità di improvvisare, mantenedo sempre quel feeling "blue" necessario.
La jam infuocata continua con l'esecuzione del classico di Cole Porter, "What is This Thing Called Love?" (1930), dove risalta un grande assolo di Charlie Shavers alla tromba, accompagnato dall'essenziale ma ottimo background del resto dei fiati.
Dopo tanto movimento ecco Bird e soci rallentare i ritmi, per riposarsi su un sicuro, rilassante ma toccante medley delle ballad più amate dallo stesso Parker, tra le quali "All the Things You Are", "Dearly Beloved" e "The Nearness of You".
Chiude l'album (e la jam session) "Funky Blues", uno slow blues dal sapore New Orleans incontaminato da qualsiasi influenza bop e moderna: il modo adatto per concludere una grande e stimolante jam.





Quattro anni dopo la registrazione dell'album di cui abbiamo appena parlato usciva "J is for Jazz", album che vedeva il quintetto del grandissimo trombonista J.J. Johnson alle prese con una decina di ottimi brani.
Una impeccabile sezione ritmica guidata da Elvin Jones alla batteria e Wilbur Little al contrabbasso (sostituito in tre brani da Percy Heath) accompagna i musicisti attraverso l'esecuzione di brani di diversa natura: dall'up tempo di "Cube Steak", "Naptown U.S.A.", "Overdrive" alle ballad "It Might As Well Be Spring" e "Angel Eyes".
Tra tutti i brani spicca l'esecuzione del classico di Miles Davis "Solar", il quale tema sembra scritto apposta per il registro grave del trombone di Johnson.


Ultimo rapidissimo consiglio/riscoperta: la registrazione della leggendaria session di Louis Armstrong e Duke Ellington (1961), dove i due musicisti si cimentano nella rilettura dei classici che li hanno resi immortali.
Troviamo quindi una versione "ridotta" del classico ellingtoniano da big band "In a Mellow Tone", dove il clarinetto di Barney Bigard dialoga con la tromba di Satchmo durante l'esposizione del noto tema.
Stessa cosa con "It Don't Mean a Thing", dove la tromba di Armstrong cimentandosi in passaggi e soli di poche note riesce a far decollare ulteriormente un brano che di certo non manca di swing.
Tra i brani migliori includiamo di sicuro una bellissima "The Beautiful American", dove il trombone di Trammy Young dialoga con le note ben più acute del clarinetto, mentre la tromba espone un tema tanto semplice quanto efficace.
E poi potremmo andare ancora avanti, con "Drop Me Off At Harlem", "Mood Indigo" e una dozzina di altri brani degni di ogni attenzione.
Fondamentale.

domenica 12 giugno 2011

Rainbow - Down to Earth (1979)

Abbiamo già parlato dei Rainbow in passato, più precisamente di quel capolavoro dell’hard rock che porta il nome di “Rising” (1976), vera e propria culla del sound hard & heavy che sarà prerogativa dei primi anni ‘80.
“Rising” vedeva al fianco di Richie Blackmore una line up di prima qualità: Jimmy Bain al basso, Tony Carey alle tastiere, Cozy Powell alla batteria e il grande R.J. Dio alla voce.
L’album apriva nuove porte nel mondo dell’hard rock, tra tematiche fra l’epico e le prime avvisaglie fantasy, tastiere e synth spesso e volentieri in primo piano oltre ad una grandissima attenzione alla melodia e al feeling solistico.
La line up registrerà un live dal nome “On Stage” proprio durante il tour di “Rising” (più precisamente le registrazioni documentano le date in Germania e Giappone), che verrà pubblicato l’anno successivo.
Concluso il tour Bain e Carey abbandoneranno la formazione per essere sostituiti rispettivamente da Bob Daisley e David Stone.
Nel 1978 esce quindi quello che sarà il secondo capolavoro della band, un album imprescindibile e indiscutibilmente fondamentale nella storia dell’hard rock: “Long live Rock’n’Roll”.
Tracce come “Kill the King”, la ballata “Rainbow Eyes” o la stessa title track portano all’interno del rock sul finire degli anni settanta quel gusto per la melodia armonizzata, per i barocchismi e per la grandiosità epica che sarà poi ripresa (in chiave naturalmente diversa) dai primi gruppi heavy metal della scena britannica, con l‘esplosione della NWOBHM qualche anno dopo.
Ma dopo l’uscita di questo capolavoro la line up dei Rainbow vede nuovi, radicali, cambiamenti: mentre il fedele Powell rimane dietro le pelli al basso arriva, direttamente dalla rottura con i Deep Purple, Roger Glover (vecchia conoscenza di Blackmore); alle tastiere un giovane Don Airey (attuale tastierista dei Deep Purple e session man per le più grandi band rock di sempre, dai Sabbath al prog dei Jethro Tull) sostituisce David Stone.
Anche Dio, non convinto della validità artistica del nuovo materiale proposto da Blackmore, lascia l’amico per unirsi ai Black Sabbath, venendo cosi’ sostituito da Graham Bonnet, al suo esordio in un gruppo decisamente affermato.





La band quindi entra in studio con una manciata di brani scritti a quattro mani da Blackmore e da Glover, pubblicando nel 1979 quello che sarà il quarto album dei Rainbow: “Down to Earth”.
Innegabile il cambio di rotta rispetto ai lavori precedenti: la svolta porta la band ad un sound lontano anni luce dall’epicità di “Rising” o “Long live Rock’n’Roll”, optando per un semplice e squadrato hard rock già decisamente ottantiano, a volte tendente a sonorità assolutamente radiofoniche (secondo gli standard di Blackmore, naturalmente).
“All night long”, non a caso, non è altro che un energico e ammiccante brano hard con una strofa ultra melodica e cantabile contrapposta ad un ritornello anthemico: non si può dire quindi che la ricetta dei nuovi Rainbow non funzioni.
La voce di Bonnet è solida ed asciutta, diversissima rispetto a quella di Dio, e adatta ad uno stile meno elaborato e più improntato sull’impatto che sulla tecnica.
Con “Eyes of the World” sembra di sentire qualcosa dei grandi Europe che verrano, quelli del fantastico “Wings of Tomorrow”: tastiere in primo piano, tra synth e passaggi di organo, andamento mid ma sostenuto e grandissimo tiro e intensità della voce di Bonnet.
Ottimo pezzo.
Si torna ad un sound puramente hard rock con “No time to Lose”, dal groove che può rimandare ai Deep Purple di “Come taste the Band”.
Molto bella la parte solistica, con un Don Airey che dialoga con la chittara di Blackmore a suon di veloci passaggi all’organo.
Un arpeggio acustico apre “Makin Love”, power ballad in tutto e per tutto negli standard dell’epoca, anche se a dir la verità decisamente poco ispirata rispetto agli altri brani.
L’album prosegue con una cover di Russ Ballard, “Since you’ve been gone”, vera e propria chicca: l’interpretazione di Rainbow è magistrale, trasformando un brano pop rock da classifica in un vero e proprio anthem hard rock.
La prova vocale di Bonnet è tra le più alte dell’intero lavoro, e il breve assolo finale di Blackmore è un vero e proprio esercizio di gusto melodico.
Il blues distorto e rassegnato di “Love’s no Friend”, tra semplici ma incisivi riff di chitarra, l’organo di
Airey e l’espressività della voce di Bonnet, ci porta all’ultima parte di questo “Down to Earth”.
Chiudono “Danger Zone” e “Lost in Hollywood”: il primo è un brano hard rock dalla struttura semplice e lineare nei canoni dei nuovi Rainbow; il secondo, invece, è decisamente più interessante: la band dimostra una grande intesa, un tiro e una precisione ottimi, oltre ad una tecnica individuale da non sottovalutare, confezionando un grandissimo brano hard & heavy, sicuramente tra i migliori di tutta la produzione dei Rainbow.




Forse l’ultimo vero e proprio album dei grandissimi Rainbow, quelli che sul finire dei seventies rinnovarono il vocabolario dell’hard rock, creando uno stile che sarà tra le principali influenze per innumerevoli band all’alba degli anni ottanta.

venerdì 3 giugno 2011

Deep Purple - Stormbringer (1974)

Nei primi mesi del 1974 i Deep Purple pubblicano quello che sarà il più grande successo della band nell’era Coverdale: “Burn”.
Dopo l’abbandono di Ian Gillan (voce della cosiddetta mk II, e frontman attuale) e Roger Glover (bassista, presente dagli inizi), rispettivamente sostituiti da un giovanissimo David Coverdale e da Glenn Hughes, il sound della band inglese prende una definitiva svolta.
Il principale nucleo compositivo ruota ancora attorno ai due storici componenti, ovvero Richie Blackmore e Jon Lord, ma non bisogna dimenticare l’apporto dei due nuovi arrivati: nei crediti di “Stormbringer”, infatti, vediamo la firma di Coverdale in tutti i brani dell’album, mentre Hughes partecipa alla scrittura di ben sei pezzi.
La straordinaria produttività e collaborazione dei due nuovi arrivati porta quindi ad un’evoluzione del sound, che da una solida base hard in perfetta linea con quello che era il souno dei primi anni ‘70 si sposta verso un hard rock ricco di sfumature, dal funky al soul, senza però mai dimenticare quelle che sono le radici bluesy della band.
La nuova natura della band però porterà all’insoddisfazione del problematico Blackmore, che in passato aveva già dimostrato il proprio carattere da leader causando la rottura con Gillan; il chitarrista, coinvolto in nuovi progetti e mosso da nuovi interessa musicali, lascerà prontamente i Purple per creare i Rainbow insieme al fidato R.J. Dio (Blackmore sarà sostituito da Tommy Bolin per le registrazioni e il tour di “Come taste the Band”, 1975).
Purtroppo “Stormbringer” non eguaglierà il successo dello straordinario “Burn”.




La title track apre nel modo migliore possibile l’album, dal suo andamento da mid tempo fino ad arrivare al bellissimo refrain, arricchito dai fraseggi di un Blackmore più che mai ispirato; inoltre il solo di chitarra, anche se uno dei più semplici e meno virtuosi, è forse uno dei più espressivi mai usciti dalla Stratocaster del musicista inglese.
“Love don’t mean a Thing” si muove a ritmo funk, tra chitarre pulite dal suono ricchissimo e una sezione ritmica dal gran groove; non possiamo non notare poi l’apporto vocale di Hughes: la voce acuta e potente del nuovo bassista funge da perfetto contrappunto a quella calda e profonda di Coverdale.
Con “Holy Man” e “Hold On” ci muoviamo sempre sulle stesse coordinate: la prima quasi sulla struttura da power ballad, con un bel refrain contrapposto ad una strofa super cantabile, la seconda dal sapore più blues, cantata in strofe alternate da Coverdale e Hughes.
Torniamo quasi ai tempi di “Burn” con “Lady Double Dealer”, tra i brani più belli dell’album: un energico pezzo di puro hard rock, dove un sicurissimo Blackmore sforna uno dei riff più convincenti di sempre.
Da notare anche il bridge melodico, in perfetta linea con quanto la band vuole proporre in termini di novità nel sound.




Decisamente funkeggiante è la coinvolgente “You can’t do it right”, cantata da tutte e due le voci in un perfetto alternarsi; notiamo quasi per la prima volta la presenza di Lord grazie ad un azzeccato solo di synth (la presenza del tastierista è notevolmente diminuita in termini solistici e di “volume“).
Si rockeggia decisamente di più con “High Ball Shooter”, brano perfetto, dal tiro deciso e dalla struttura ben architettata: di nuovo le voci si alternano creando contrasti da brividi e Lord ci regala un bellissimo solo old style di organo.
“The Gypsy” rappresenta una piccola anticipazione di quello che sarà il sound dei Rainbow: ritmiche spesso in mid tempo, tonalità minori, atmosfera “epica” e un Blackmore che predilige l’espressività e la melodia allo sfoggio della tecnica.
Grandissimo brano.
Conclude quella che è la più bella ballata della band inglese, “Soldier of Fortune”.
La voce di Coverdale poche volte è stata cosi’ ispirata e struggente, e Blackmore non è mai stato cosi’ abile come in questo caso nel comporre qualcosa di veramente toccante.




“Stormbringer” è un ottimo album, forse colpevole di essere uscito a nemmeno un anno di distanza dal capolavoro “Burn” e quindi eclissato dal successo più duraturo del precedente.
Le acque si muoveranno di nuovo, il sound subirà altri mutamenti, a partire già dal lavoro successivo e dall’entrata di Bolin.
Ma di questo parleremo più avanti.

martedì 31 maggio 2011

In breve: Black Merda - Black Merda & Amon Duul II - Phallus Dei

Senza addentrarmi in una vera e propria recensione vorrei portare l’attenzione su due album di culto; come spesso accade questi album si trovano sull’orlo del baratro, in equilibrio precario tra l’essere ignorati e l’essere esaltati da una ristretta cerchia di fan, a discapito della loro indiscussa e oggettiva validità.



Il primo di cui vorrei parlare è il self titled dei Black Merda (1970), di sicuro la band con il nome più equivoco della storia della musica: infatti la pronuncia esatta sarebbe “black murder”, essendo “merda” la contrattura del vocabolo murder in slang afro-americano.
Cosa ci propongono i quattro musicisti di Detroit?
Il primo nome che viene in mente ascoltando un brano a caso degli undici che compongono l’album è quello di Jimi Hendrix: non solo la voce del leader Anthony Hawkins si avvicina per timbro e stile a quella del grande chitarrista, ma anche il groove e la scelta dei suoni rimandano al tipico sound hendrixiano.
Ci muoviamo comunque nelle coordinate di un blues rock ricchissimo di spunti interessanti, tra fughe psichedeliche e ritmiche coinvolgenti; il mood soul di alcuni brani rende il tutto più roots, mentre l’aggressiva ritmica funk di altri dona una modernità e un’energia incredibile.
Tra i brani migliori troviamo “Ashamed”, di stampo chiaramente hendrixiano, ma comunque validissima e ricca di carica funky; anche l’opener “Prophet” non è da meno in fatto di groove ed energia.
Molto belle sono anche “Reality” dove la voce raggiunge grandi picchi di espressività, nonchè la seguente “Windsong”, blues minore strumentale ricco di feeling.
In generale un bell’album, a cavallo tra il blues più puro che guarda al soul e quello più psych sulle orme del migliore Hendrix.
Obbligatorio per gli amanti dei suddetti generi.







L’altro album di cui parliamo brevemente è “Phallus Dei” degli Amon Duul II, datato 1969.
Sicuramente tra i più rappresentativi e migliori album della cosiddetta scena krautrock, “Phallus Dei” resta ancora oggi un album sconosciuto ai più, sicuramente a causa anche della sua natura particolare e decisamente non semplice e diretta.
Col termine krautrock si intende una pionieristica scena di gruppi e musicisti sviluppatasi in germania nei primi anni settanta, attivi nella sperimentazione strumentale e attenti alle nuove frontiere dell’elettronica, che sovvertirono la struttura della canzone per avvicinarsi ad architetture più ricche e complicate con particolare attenzione alla natura “ipnotica” e psichedelica (non nell’accezione californiana del termine) della musica.
Per citare i più famosi troviamo tra le file di questa nuova scena band come i Faust, i Popol Vuh e i seminali Ash Ra Tempel.
La line up di “Phallus Dei” comprende ben dieci membri, per un grande numero di strumenti: dalle percussioni più diverse al sassofono, dal vibrafono al violino.
I cinque brani ci conducono in un viaggio ai limiti del cosmo, tra vere e proprie visioni allucinate, atmosfere surreali e lievemente decadenti.
Apre “Kanaan”, dai bellissimi fraseggi di chitarra e vibrafono incastonati nel caos sonoro e percussivo, nonchè dalla suggestiva voce declamata.
Nei sei minuti di “De gutet, schonen, wahren” assistiamo ad una irreale prova vocale in uno stile che può ricordare quello dei Comus, tra chitarre ultra distorte e percussioni ipnotiche.
Si continua con “Luzifers Ghilom”, arricchita da un bell’organo e da un finale che sa di rituale orgistico in onore di chissà quale divinità pagana e perversa (come direbbe il buon Lovecraft).

I due minuti di rullo di tamburi di “Henriette Krötenschwanz” ci portano alla conclusiva e mastodontica title track, dalla durata di ben venti minuti, vera e propria sintesti (si fa per dire!) di quello che è il sound degli Amon.
Album ultra consigliato a tutti senza eccezioni…quello degli Amon Duul II è un viaggio che prima o poi bisogna fare!

lunedì 23 maggio 2011

Comus - First Utterance (1971), manifesto di psichedelia ossianica.



Finalmente parliamo dei Comus!
Sicuramente chi è entrato nell’immenso labirinto del progressive rock degli anni settanta avrà sentito parlare di questa grandissima band, oppure ascoltato qualcuna delle canzoni più celebri.
Per introdurre questo capolavoro che porta il nome di “First Utterance” partirei dalla line up, buon punto di inizio per addentrarsi in quello che è il particolarissimo sound dei Comus.
Al fianco del leader Roger Wooton (chitarra folk e voce), Glenn Goring (chitarre e percussioni), Andy Hellaby (basso), Colin Pearson (violino e viola), Bobby Watson (voce femminile e percussioni) e Rob Young (fiati: flauti e oboe).
Siamo davanti ad una formazione ben assortita e decisamente particolare, incentrata su strumenti atipici per quanto riguarda il progressive più canonico, dove al massimo figurava un flauto al fianco degli strumenti ritmici (con le dovute eccezioni naturalmente).
Gli strumenti di estrazione classica (oboe, flauto, viola e violino) incontrano quelli di natura folkloristica (lo stesso violino, chitarra folk e percussioni varie) generando un sound unico e lievemente distorto, certamente ricco di influenze popolari britanniche ma non libero dalle nuove soluzioni della psichedelia: l’atmosfera straniante, perturbante e assolutamente “allucinogena” che si respira nel procedere dell’ascolto non è facile da riscontrare in altre band che si avvalgono del solo uso di strumenti acustici e popolari.
Quello creato dai Comus non è altro che un labirinto sonoro, irreale e concreto allo stesso tempo, tra aree illuminate e altre nel buio più nero; un viaggio al limite tra il fiabesco e il disturbante, tra la purezza del folk anglosassone e le peccaminose grinfie della psichedelia.





“Diana” apre le porte del mondo al contrario dei Comus, presentandosi come una sorta di manifesto della psichedelia ossianica della band,
Un ostinato di basso regge la struttura sulla quale poggiano l’allucinata (sfiderei chiunque a non definirla tale!) voce di Wootton e quella di Bobby Watson, decisamente più eterea e canonica; molto interessanti le inserzioni degli archi poco prima della metà del brano, i quali aprono la strada alle percussioni facendo decollare il brano da un “goffo” folk a una sfrenata danza.
La lunga “The Herald” ci dimostra come il sound Comus sia assolutamente personale, ricco e malleabile: una prima sezione in stile ballata, dal sapore cupo e malinconico, precede una sezione centrale (strumentale) dove è possibile ascoltare ognuno degli strumenti nella fantastica gamma di timbri che la band propone; infine troviamo una coda dove riprende il cantato riproponendo la malinconica melodia iniziale.
Proseguiamo.
“Drip Drip” è sostenuta da una ritmica tribale sulla quale il violino intesse melodie tra il popolare irlandese e il sapore modale della musica orientale, accompagnando quasi in contrappunto la spericolata voce del leader.
La successiva “Song to Comus” risulta una delle canzoni più belle ed interessanti dell’album, dove la chitarra acustica ha un ruolo assolutamente primario, accompagnata per la prima volta da un flauto veramente in risalto rispetto al resto dell’impasto timbrico.
Le strofe si contrappongono ad una seconda sezione (la quale non è ragionevole chiamare ritornello) dove il ritmo si fa più sostenuto, grazie anche al supporto del violino e della viola che irrobustiscono il tutto; le percussioni ritmano sempre col loro incedere etnico ed ipnotico e sembra quasi di trovarsi di fronte ad un atipico suonatore di tabla.
Sembra di ascoltare i Jethro Tull migliori (sebbene siamo veramente molto lontani dalla band di Anderson) con la seguente “The Bite”, movimentata e frenetica dove la voce di Wootton regala una delle sue performance migliori, tra vocalizzi al limite del psichedelico e passaggi dal sapore vagamente bluesy.
Dopo il breve intermezzo strumentale “Bitten”, ascoltiamo il brano conclusivo di questo “First Utterance”: “The Prisoner”.Qui più che in altri brani è lampante l’influenza folklorica non solo britannica (o in generale nord-europea) ma anche mediterranea, riscontrabile nella ripetitività di alcuni moduli, nella natura di alcuni vocalizzi e nell’importante apporto delle percussioni come vero e proprio elemento portante della struttura.
Un ultima parola la vorrei spendere per i testi: temi quali l’alienazione, la pazzia, il rovesciamento delle leggi morali e la violenza, il fondersi della realtà col sogno e tutto ciò che è perturbante torna più volte all’interno delle liriche; l’atmosfera cupa, nordica e notturna che troviamo in alcuni brani si riflette negli
stessi testi (una citazione su tutte: “The dim light she comes peering through the forest pines, and she knows by the sound of the baying, the baying of the hounds”).



Questo è un album da ascoltare e riascoltare: la prima volta non riuscirà ad essere chiaro in tutti i suoi particolari, non riuscirete a percepire la voce dei singoli strumenti e ancor meno riuscirete a notare la grandissima raffinatezza di alcuni passaggi scontrarsi con il delirio psichedelico di altri.
Un must.