giovedì 21 aprile 2011

Jimi Hendrix - Band of Gypsys (1970)

Siamo nel 1969.
Cosa sta succedendo nel panorama musicale mondiale?
Beh, è un anno ricco di uscite, alcune veramente rivoluzionare, altre decisamente trascurabili, per non dire inutili.
Vediamo cosa di bello potevamo acquistare per inserire nel nostro altrettanto bel giradischi.
E' l'anno in cui i Pink Floyd registrano il mitico "Ummagumma", che dalla psichedelia  disturbata di "The Piper..." vira verso una direzione più progressiva e sperimentalista; è l'anno in cui i Deep Purple pubblicano l'omonimo disco, ancora decisamente acerbo sebbene preceduto da altri due lavori (al basso c'era ancora Nick Simper e alla voce Rod Evans) in studio; i Beatles sull'onda del successo del film "Yellow Submarine" (1968) pubblicano l'omonimo album con i brani facenti parti della colonna sonora; e ancora, come non citare i primi due album dei Led Zeppelin dei quali sicuramente parlero' in futuro dettagliatamente.
E ancora uscite su uscite: il secondo album di Bowie, il leggendario "Phallus Dei" degli Amon Duul II, esponenti di punta della nascente scena krautrock, per non parlare di "In the court of the crimson king"!
Anno decisamente ricco quindi: progressive, l'ormai affermato sound dei Led Zeppelin, il nuovo rock cosmico tedesco e chi più ne ha più ne metta.

Ma per tante cose che iniziano, una su tutte finisce: nel 1969 si sciogliono definitivamente i  Jimi Hendrix Experience.
Hendrix, astro non più nascente ma già decisamente affermarto, ferma la macchina perfetta che aveva creato tre capolavori del rock mondiale: "Are you Experienced", "Axis: bold as love" e "Electric ladyland".
Tutto questo nell'arco di circa tre anni, accompagnato dai grandissimi Mitch Mitchell (batteria) e Noel Redding (basso).
Hendrix non ne vuole sapere di appendere la chitarra al muro e subito (spinto anche da obblighi di natura contrattuale) forma una nuova band, i Gypsy Sun and Rainbows.
La vita del gruppo si esaurisce subito, o se vogliamo confluisce nel progetto più stabile dei Band of Gypsys: Hendrix recluta Billy Cox al basso e Buddy Miles alla batteria e il nuov trio è formato.

L'unica testimonianza che abbiamo di questa formazione è appunto l'album di cui vorrei parlare, che porta il nome del gruppo: in realtà il gruppo registrò in studio diverse canzoni che pero' non sono comparse fino su disco fino al 1997.
"Band of Gypsys", infatti, è la registrazione live del concerto tenutosi il 1 gennaio 1970 a New York, al mitico Fillmore East.
Ci troviamo di fronte ad un live a tutti gli effetti quindi...e si sa che molti appassionati preferiscono la dimensione in studio per ammirare la qualità e la tecnica dei musicisti.
Ma questo album non è un semplice live, come tanti ne sono usciti negli anni sotto forma di bootleg; è una vera è propria testimonianza della potenza live di Jimi , del suo feeling incredibile non solo sullo strumento ma nell'insieme, dell'attaccamento alle radici blues che a loro volta sembrano salde come non mai al terreno della musica afro-americana....incredibile!
Jimi si butta alle spalle la sperimentazione sonora e compositiva, prende la chitarra e si lascia andare alle blue notes accompagnato da una sezione ritmica dal groove irraggiungibile.
I brani, senza mettere in secondo la struttura sulla quale sono composti, diventano inevitabilmente jam ricche di dialogo tra gli strumenti e le voci (Miles e Cox cantano anche), pienissime di momenti veramente unici nella discografia di Hendrix.
La psichedelia lievementre allucinata di brani immortali quali "Third stone from the sun", oppure il distorto innovativo di canzoni come  "Spanish castle magic" sembrano aver fatto un passo indietro: Hendrix recupera il sound delle origini, lo trasforma in mille modi, ma suona sempre un feroce blues.

I brani sono tutti ad un livello altissimo, nella qualità e nell'esecuzione: effettivamente se gli stessi pezzi fossero stati registrati in studio non ci sarebbe stata una grande differenza di resa, secondo il mio parere.
"Changes" (scritta e cantata da Miles) su tutti ci vuol fare capire la nuova direzione intrapresa da Hendrix con il nuovo trio, sfiorando i confini col funky e un feeling quasi soul alla voce.
"Machine Gun" dall'altra parta porta tutti sulla dimensione della jam, o comunque della maggiore libertà improvvisativa...ma la parola d'ordine è sempre quella: blues!
E lo possiamo vedere dalla fantastica "Power of soul", aperta da una serie di lick da paura, cantata alla mitica  "maniera" di Jimi, dove pero' non si sviluppa una vera e propria sezione di improvvisazione.
Dal groove funkeggiante e coinvolgente al massimo è "Message to love", dove inoltre troviamo un paio di assoli veramente ineguagliabili (a prescindere dal fatto che parliamo di Jimi Hendrix).
Chiude l'album "We gotta live togheter" l'altro brano interamente composto (e cantato) da Buddy Miles, che dimostra come il trio avesse raggiunto una grandissima intesa musicale e non.

Ci tengo a segnalare questo album proprio perchè spesso non è considerato alla pari degli altri 3 capolavori del mitico Jimi Hendrix, ma anzi, un mediocre live, registrato forse anche a corto di idee per adempire in fretta a voleri contrattuali.
In realtà questa è la testimonianza più pura di come uno dei più grandi musicisti moderni concepiva la musica e la sua esecuzione dal vivo.
In una scena musicale che puntava verso il futuro, verso l'innovazione, dove anche la tanto sfruttata psichedelia era già quasi superata, il buon vecchio Jimi prendeva la chitarra e insieme a due buoni amici andava avanti di blues.

E suonava solo quelle, ma fondamentali, blue notes.

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