lunedì 25 aprile 2011

Opeth - Watershed (2008)


Quando nel 2005 gli Opeth pubblicarono “Ghost Reveries”, ad ora penultimo lavoro della band svedese, l’oceano di fan al loro seguito si divise in due.
Da una parte (la più sostanziosa) i fan del vecchio sound, legati agli album più celebri, da “Orchid” a “Blackwater park”, senza dimenticare i più recenti album “gemelli” “Deliverance” e “Damnation”, e dall’altra gli entusiasti della nuova via intrapresa dalla band.

“Ghost Reveries” presentava una svolta più melodica e progressiva, riduceva al minimo le growl vocals, inseriva in maniera ufficiale (e molto consistente) le tastiere vintage di Per Wiberg.
Senza dubbio qualche cosa era già cambiato con l’uscita di “Damnation”, dove Akerfeldt eliminava completamente il growl per utilizzare il suo inconfondibile e caldo timbro pulito; inoltre le distorsioni comparivano in maniera sporadica e l’andamento dei pezzi prendeva una piega in generale più settantiana.
“Ghost Reveries” rappresentava comunque una svolta fondamentale nella carriera della band: rimaneva la vecchia vena puramente death in brani come “Ghost of perdition”, “The Baying of the Hounds” di fianco a pezzi esclusivamente progressive come “Harlequin Forest” o la bellissima “Hours of welth”.
Le tastiere dell’iperattivo Per Wiberg (organista/tastierista nella stoner rock band Spiritual Beggars, nei Clutch e nei King Hobo, formazione svedese dedita ad un blues rock acido e robusto) sono diventate fondamentali: il musicista entra definitivamente nella formazione; ricordiamoci infatti come in “Damnation” le tastiere erano state registrate dal leader dei Porcupine Tree, Steve Wilson, sotto direttive dello stesso Akerfeldt.

Nel 2008, dopo due cambi di formazione (Martin Axenrot sostituisce Lopez alla batteria, mentre l’ex Arch Enemy Fredrik Akesson prende il posto del chitarrista Peter Lindgren) la band entra in studio per registrare quello che sarà il loro, ad oggi, album più recente: “Watershed”.
Stilisticamente continua il discorso cominciato con “Ghost reveries”, allontandosi sempre di più dalla matrice death metal, che a detta del leader continua pero’ ad essere ancora la vera spinta compositiva della band.
Il lato prog degli Opeth diventa protagonista a tutti gli effetti, dal sound molto seventies della fantastica “Burden” dove troviamo il primo solo di organo in tutta la carriera della band, alla sperimentazione acustica dell’opener “Coil” (la prima canzone degli Opeth dove compare una voce femminile, in questo caso della cantante svedese Natalie Lorichs).
Non mancano i momenti più metal oriented: i blast beats e il growl di “The Lotus eater”, l’andamento enigmatico e vagamente alla “Blackwater park” di “Heir Apparent”, per prendere due esempi.
Traccia più particolare è “Hessian Peel”, che alterna parti completamente acustiche a sezione progressive e molto articolate.
Non manca il lato più easy listening: “Porcelain Heart”, secondo singolo estratto, con i suoi passaggi di chitarra classica e il ripetitivo riff dei breaks, e la già accennata “Burden”.
Quest’ultimo brano è sicuramente tra i momenti più alti non solo di “Watershed”, ma di tutta la carriera della band: il pezzo è libero dai vincoli del death metal, e si stabilizza sull’alternanza di strofa melodica e break strumentali che grazie agli interventi solistici di Wiberg e dei chitarristi diventano memorabili.
Il gusto della melodia di Akerfeldt si comprende bene ascoltando questi ultimi soli di chitarra, tutt’altro che complicati, tutt’altro che scontati.
Chiude il brano un outro di chitarra acustica, che aggiunge il tocco di classe finale ad una composizione perfetta.
Molto interessante è anche “The Lotus Eater”, aperta da un vocalizzo di Akerfeldt interrotto da una sezione di blast beats dove si alternano clean e growl vocals.
La parte strumentale centrale mostra l’abilità tecnica della band al meglio, nonché l’amore del leader per un certo prog che scomoda nomi quali King Crimson e Gentle Giant.




In definitiva se dovessi consigliare un album degli Opeth a qualcuno che ne fosse completamente a digiuno, consigliere proprio questo.
Un capolavoro come “Blackwater park” ha bisogno di ascolti su ascolti per essere apprezzato al cento per cento, lo stesso vale per il meraviglioso “Still Life” (questo invece lo consiglio a chi vuole ascoltare la vena più progressive rock della band); “Watershed” invece risulta quasi immediato nella sua varietà stilistica e sonora, dove niente è fuori posto e niente risulta trascurabile.

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