martedì 28 giugno 2011

The Velvet Underground - White Light/White Heat (1968)




Con l’uscita del primo album in studio, “The Velvet Underground and Nico” (1967), la band guidata da Lou Reed si impone nel panorama del rock’n’roll come una vera e propria realtà d’avanguardia nel periodo di massimo splendore della cosiddetta british invasion, senza dimenticare l’incontenibile ondata beat che stava per travolgere (o aveva già travolto, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta) diversi paesi europei.
Non a caso le influenze europea del folk rock britannico, delle acidità del beat più intransigente che rivaleggiava in visionarietà con la psichedelia californiana, della forma canzone semplice e più che orecchiabile per certi aspetti trovano posto all’interno dei brani di questo disco d’esordio.
La figura di Nico, al secolo Christa Paffgen, attrice e modella, oltre a cantautrice di qualità ancora piuttosto discussa, trova concretezza in queste influenze che al giorno d’oggi verrebbero definite decisamente “commerciali”.
Brani come “I’ll be Your Mirror” oppure “All Tomorrow’s Parties”, pur non sfigurando affatto essendo inoltre opera dello stesso Reed, ne sono la prova.
Non a caso fu lo stesso Andy Wharol, produttore dell’album (e autore del celeberrimo artwork), a volere l’ingresso della modella tedesca nella formazione, fiutando un probabile successo dovuto anche all’immagine oltre che al livello artistico della proposta.
Il “sodalizio” con Nico durerà solamente fino all’anno successivo: la cantante lascerà la band, e dato il suo effettivo apporto alla formazione non verrà rimpiazzata.


Nel 1968, quindi, la formazione dei Velvet Underground vede oltre a Lou Reed Sterling Morrison alla chitarra e al basso, Maureen Tucker alla batteria e John Cale alla viola, all’organo e alle seconde voci.
Continua il rapporto artistico con Wharol, che ideerà anche in questo caso la copertina, sotto le direttive dello stesso Lou Reed.
La collaborazione con Cale, violista e profondo studioso e conoscitore di musica contemporanea (ricordiamo la collaborazione con John Cage), cambia rotta: da una semplice militanza dell’atipico musicista all’interno della band, ad un vero e proprio sodalizio con il leader.
Il sound subisce alcune mutazione decisive, le quali saranno fondamentali per la maturazione degli ideali artistici ed estetici dello stesso Reed solista: il tutto viene reso più scarno, freddo e diretto, la produzione di bassissima qualità sembra essere quasi volontaria, la melodia tradizionale viene abbandonata per un gusto perturbante delle assonanze, i suoni acquistano un sapore meccanico e talvolta inanimato.
La title track, che apre l’album, offre subito alcuni punti di riflessione: fondamentalmente da considerarsi come un intro, è ancora legata al rock’n’roll in senso stretto, definizione che Reed sembra voler rifiutare a priori già dagli esordi dei VU.
Non a caso il brano finisce con un feedback distorto ed elettronico quasi a volere cancellare e negare quanto detto in precedenza.
“The Gift” è una prova della via originale e assolutamente ineguagliabile (al tempo) intrapresa da Lou Reed: sopra una base ipnotica e ripetitiva, fondamentalmente percussiva, una voce recitata narra la tragica (o tragi-comica, secondo quel senso del perturbante di cui abbiamo accennato prima) vicenda di un certo Waldo Jeffers, vittima di un fatale incidente occorso in seguito all’idea di impacchettarsi e spedirsi alla fidanzata.
La “sorpresa” avrà risvolti decisamente inquietanti.
Da sottolineare come la voce sia priva di qualsiasi inflessione emotiva, lasciandosi andare al massimo in un tono assolutamente stereotipato durante i dialoghi riferiti nella cronaca dell’incredibile fatto.
L’atmosfera sembra rilassarsi con “Lady Godiva’s Operation”: la ripetitività ipnotica della musica è resa al suo minimo, la linea melodica vocale torna ad una sorta di cantabilità accostabile a quella di certi brani dell’album precedente.
Con la conclusione del pezzo ci rendiamo conto che il senso di tranquillità e rilassatezza non era altro che frutto di un’abile illusione di Reed e compagni, capaci di rendere più che mai viva la sensazione di straniamento data dalla ripetitività sonora, anche se in questo caso più dilatata rispetto al caso precedente.
  



I due minuti circa di “Here She Comes Now” sembrano presentarci una ballata, o meglio, quella che può essere considerata una parodia di essa.
Con “I Heard Her Call My Name” ci troviamo di fronte a soluzioni che vedeno l'inserimento, all’interno della struttura del rock’n’roll, del gusto “reediano” per il rumore bianco, i feedback, le distorsioni esasperate, che sarà il punto principale di quel manifesto di pura libertà artistico-estetica che prende il nome di “Metal Machine Music: An Electronic Instrumental Composition” (1975).
“Sister Ray”, la traccia conclusiva, vera e propria prova di volontà e perseveranza artistica di Lou Reed, mostra nei suoi diciassette minuti quali siano i punti principali (che naturalmente abbiamo già trattato) della composizione del grande artista.
Ripetitività di cellule ritmico-melodiche brevi (poche battute, se non addirittura un paio di accordi), intrusione strumentali di puro rumorismo, utilizzo della distorsione non come possibilità sonora ma come elemento annichilente, stravolgimento della forma e della natura del rock’n’roll, tematiche che con uno sguardo freddo e distaccato puntano verso i lati più paradossali e perversi dell’uomo: questo è l’universo sonoro in cui i The Velvet Underground muovono i primi passi, e smuovono il produttivo ma stagnante oceano del rock mondiale.

giovedì 23 giugno 2011

Jazz Time #2: Ammons & Stitt, Parker, J.J. Johnson, Armstrong & Ellingtone.

Anche questa volta vorrei portare l'attenzione su qualche album più o meno celebre della storia del jazz, cercando per ognuno di sottolineare le caratteristiche principali e i punti salienti in modo da dare un'idea il più possibile completa in poche righe.


Iniziamo con un vero e proprio capolavoro, direttamente dal 1961, "Boss Tenors: Straight Ahead from Chicago", che vede come protagonisti due grandi del sax quali Sonny Stitt (alto e tenore) e Gene Ammons (tenore).
La line up è completata da Buster Williams al basso, John Houston al piano e George Brown dietro le pelli.
Tra i brani proposti in questo album troviamo due tra i più amati e suonati standards di sempre, "There is no Greater Love", qui in una veste brillante e dinamica con continui scambi tra i due leader che sfruttano la struttura ben delineata del brano, e "Autumn Leaves".
Quest'ultima, nelle mani sapienti di Stitt e Ammons, acquista un sapore decisamente bluesy rendendo particolarmente originale l'esecuzione.
Troviamo poi due blues firmati entrambi da Gene Ammons, il meduim "The One Before This" e il ben più sostenuto "Blues Up and Down" (che vede la collaborazione di Sonny Stitt alla scrittura del brano).
I due musicisti continuano a rincorrersi con continui scambi più o meno ampi, riuscendo però a mantenere un'assoluta continuità formale sulla struttura dei brani.
Ed è un atro blues, uno slow, a chiudere l'album, questa volta accreditato a Sonny Stiss: "Counter Clockwise"; ci muoviamo sulle coordinate del vero e proprio roots blues, che riacquista temporaneamente accenti bop nei chorus dove il tempo viene raddoppiato.
Disco bellissimo e fondamentale, che segna l'incontro tra due grandi sassofonisti alle prese con brani tutt'altro che "difficili" o "for musician only", per parafrasare il titolo di un famoso album bebop.





Sembrerà banale dirlo, ma di Charlie Parker non si finirà mai di parlare; noi oggi lo facciamo prendendo in esame una bellissima registrazione datata 1952, una grande jam session nella quale, al fianco di Bird, troviamo musicisti del calibro di Ben Webster (sax tenore), Ray Brown (contrabbasso), Oscar Peterson (piano) e dalla swinging guitar di Barney Kessel, oltre ad una ulteriore manciata di artisti.
Quattro brani (dalla durata media di quindici minuti) per un'ora di musica; cominciamo subito con il ritmo trascinante di "Jam Blues", basato su una semplicissima struttura blues in Si bemolle sopra la quale i musicisti hanno la possibilità di improvvisare, mantenedo sempre quel feeling "blue" necessario.
La jam infuocata continua con l'esecuzione del classico di Cole Porter, "What is This Thing Called Love?" (1930), dove risalta un grande assolo di Charlie Shavers alla tromba, accompagnato dall'essenziale ma ottimo background del resto dei fiati.
Dopo tanto movimento ecco Bird e soci rallentare i ritmi, per riposarsi su un sicuro, rilassante ma toccante medley delle ballad più amate dallo stesso Parker, tra le quali "All the Things You Are", "Dearly Beloved" e "The Nearness of You".
Chiude l'album (e la jam session) "Funky Blues", uno slow blues dal sapore New Orleans incontaminato da qualsiasi influenza bop e moderna: il modo adatto per concludere una grande e stimolante jam.





Quattro anni dopo la registrazione dell'album di cui abbiamo appena parlato usciva "J is for Jazz", album che vedeva il quintetto del grandissimo trombonista J.J. Johnson alle prese con una decina di ottimi brani.
Una impeccabile sezione ritmica guidata da Elvin Jones alla batteria e Wilbur Little al contrabbasso (sostituito in tre brani da Percy Heath) accompagna i musicisti attraverso l'esecuzione di brani di diversa natura: dall'up tempo di "Cube Steak", "Naptown U.S.A.", "Overdrive" alle ballad "It Might As Well Be Spring" e "Angel Eyes".
Tra tutti i brani spicca l'esecuzione del classico di Miles Davis "Solar", il quale tema sembra scritto apposta per il registro grave del trombone di Johnson.


Ultimo rapidissimo consiglio/riscoperta: la registrazione della leggendaria session di Louis Armstrong e Duke Ellington (1961), dove i due musicisti si cimentano nella rilettura dei classici che li hanno resi immortali.
Troviamo quindi una versione "ridotta" del classico ellingtoniano da big band "In a Mellow Tone", dove il clarinetto di Barney Bigard dialoga con la tromba di Satchmo durante l'esposizione del noto tema.
Stessa cosa con "It Don't Mean a Thing", dove la tromba di Armstrong cimentandosi in passaggi e soli di poche note riesce a far decollare ulteriormente un brano che di certo non manca di swing.
Tra i brani migliori includiamo di sicuro una bellissima "The Beautiful American", dove il trombone di Trammy Young dialoga con le note ben più acute del clarinetto, mentre la tromba espone un tema tanto semplice quanto efficace.
E poi potremmo andare ancora avanti, con "Drop Me Off At Harlem", "Mood Indigo" e una dozzina di altri brani degni di ogni attenzione.
Fondamentale.

domenica 12 giugno 2011

Rainbow - Down to Earth (1979)

Abbiamo già parlato dei Rainbow in passato, più precisamente di quel capolavoro dell’hard rock che porta il nome di “Rising” (1976), vera e propria culla del sound hard & heavy che sarà prerogativa dei primi anni ‘80.
“Rising” vedeva al fianco di Richie Blackmore una line up di prima qualità: Jimmy Bain al basso, Tony Carey alle tastiere, Cozy Powell alla batteria e il grande R.J. Dio alla voce.
L’album apriva nuove porte nel mondo dell’hard rock, tra tematiche fra l’epico e le prime avvisaglie fantasy, tastiere e synth spesso e volentieri in primo piano oltre ad una grandissima attenzione alla melodia e al feeling solistico.
La line up registrerà un live dal nome “On Stage” proprio durante il tour di “Rising” (più precisamente le registrazioni documentano le date in Germania e Giappone), che verrà pubblicato l’anno successivo.
Concluso il tour Bain e Carey abbandoneranno la formazione per essere sostituiti rispettivamente da Bob Daisley e David Stone.
Nel 1978 esce quindi quello che sarà il secondo capolavoro della band, un album imprescindibile e indiscutibilmente fondamentale nella storia dell’hard rock: “Long live Rock’n’Roll”.
Tracce come “Kill the King”, la ballata “Rainbow Eyes” o la stessa title track portano all’interno del rock sul finire degli anni settanta quel gusto per la melodia armonizzata, per i barocchismi e per la grandiosità epica che sarà poi ripresa (in chiave naturalmente diversa) dai primi gruppi heavy metal della scena britannica, con l‘esplosione della NWOBHM qualche anno dopo.
Ma dopo l’uscita di questo capolavoro la line up dei Rainbow vede nuovi, radicali, cambiamenti: mentre il fedele Powell rimane dietro le pelli al basso arriva, direttamente dalla rottura con i Deep Purple, Roger Glover (vecchia conoscenza di Blackmore); alle tastiere un giovane Don Airey (attuale tastierista dei Deep Purple e session man per le più grandi band rock di sempre, dai Sabbath al prog dei Jethro Tull) sostituisce David Stone.
Anche Dio, non convinto della validità artistica del nuovo materiale proposto da Blackmore, lascia l’amico per unirsi ai Black Sabbath, venendo cosi’ sostituito da Graham Bonnet, al suo esordio in un gruppo decisamente affermato.





La band quindi entra in studio con una manciata di brani scritti a quattro mani da Blackmore e da Glover, pubblicando nel 1979 quello che sarà il quarto album dei Rainbow: “Down to Earth”.
Innegabile il cambio di rotta rispetto ai lavori precedenti: la svolta porta la band ad un sound lontano anni luce dall’epicità di “Rising” o “Long live Rock’n’Roll”, optando per un semplice e squadrato hard rock già decisamente ottantiano, a volte tendente a sonorità assolutamente radiofoniche (secondo gli standard di Blackmore, naturalmente).
“All night long”, non a caso, non è altro che un energico e ammiccante brano hard con una strofa ultra melodica e cantabile contrapposta ad un ritornello anthemico: non si può dire quindi che la ricetta dei nuovi Rainbow non funzioni.
La voce di Bonnet è solida ed asciutta, diversissima rispetto a quella di Dio, e adatta ad uno stile meno elaborato e più improntato sull’impatto che sulla tecnica.
Con “Eyes of the World” sembra di sentire qualcosa dei grandi Europe che verrano, quelli del fantastico “Wings of Tomorrow”: tastiere in primo piano, tra synth e passaggi di organo, andamento mid ma sostenuto e grandissimo tiro e intensità della voce di Bonnet.
Ottimo pezzo.
Si torna ad un sound puramente hard rock con “No time to Lose”, dal groove che può rimandare ai Deep Purple di “Come taste the Band”.
Molto bella la parte solistica, con un Don Airey che dialoga con la chittara di Blackmore a suon di veloci passaggi all’organo.
Un arpeggio acustico apre “Makin Love”, power ballad in tutto e per tutto negli standard dell’epoca, anche se a dir la verità decisamente poco ispirata rispetto agli altri brani.
L’album prosegue con una cover di Russ Ballard, “Since you’ve been gone”, vera e propria chicca: l’interpretazione di Rainbow è magistrale, trasformando un brano pop rock da classifica in un vero e proprio anthem hard rock.
La prova vocale di Bonnet è tra le più alte dell’intero lavoro, e il breve assolo finale di Blackmore è un vero e proprio esercizio di gusto melodico.
Il blues distorto e rassegnato di “Love’s no Friend”, tra semplici ma incisivi riff di chitarra, l’organo di
Airey e l’espressività della voce di Bonnet, ci porta all’ultima parte di questo “Down to Earth”.
Chiudono “Danger Zone” e “Lost in Hollywood”: il primo è un brano hard rock dalla struttura semplice e lineare nei canoni dei nuovi Rainbow; il secondo, invece, è decisamente più interessante: la band dimostra una grande intesa, un tiro e una precisione ottimi, oltre ad una tecnica individuale da non sottovalutare, confezionando un grandissimo brano hard & heavy, sicuramente tra i migliori di tutta la produzione dei Rainbow.




Forse l’ultimo vero e proprio album dei grandissimi Rainbow, quelli che sul finire dei seventies rinnovarono il vocabolario dell’hard rock, creando uno stile che sarà tra le principali influenze per innumerevoli band all’alba degli anni ottanta.

venerdì 3 giugno 2011

Deep Purple - Stormbringer (1974)

Nei primi mesi del 1974 i Deep Purple pubblicano quello che sarà il più grande successo della band nell’era Coverdale: “Burn”.
Dopo l’abbandono di Ian Gillan (voce della cosiddetta mk II, e frontman attuale) e Roger Glover (bassista, presente dagli inizi), rispettivamente sostituiti da un giovanissimo David Coverdale e da Glenn Hughes, il sound della band inglese prende una definitiva svolta.
Il principale nucleo compositivo ruota ancora attorno ai due storici componenti, ovvero Richie Blackmore e Jon Lord, ma non bisogna dimenticare l’apporto dei due nuovi arrivati: nei crediti di “Stormbringer”, infatti, vediamo la firma di Coverdale in tutti i brani dell’album, mentre Hughes partecipa alla scrittura di ben sei pezzi.
La straordinaria produttività e collaborazione dei due nuovi arrivati porta quindi ad un’evoluzione del sound, che da una solida base hard in perfetta linea con quello che era il souno dei primi anni ‘70 si sposta verso un hard rock ricco di sfumature, dal funky al soul, senza però mai dimenticare quelle che sono le radici bluesy della band.
La nuova natura della band però porterà all’insoddisfazione del problematico Blackmore, che in passato aveva già dimostrato il proprio carattere da leader causando la rottura con Gillan; il chitarrista, coinvolto in nuovi progetti e mosso da nuovi interessa musicali, lascerà prontamente i Purple per creare i Rainbow insieme al fidato R.J. Dio (Blackmore sarà sostituito da Tommy Bolin per le registrazioni e il tour di “Come taste the Band”, 1975).
Purtroppo “Stormbringer” non eguaglierà il successo dello straordinario “Burn”.




La title track apre nel modo migliore possibile l’album, dal suo andamento da mid tempo fino ad arrivare al bellissimo refrain, arricchito dai fraseggi di un Blackmore più che mai ispirato; inoltre il solo di chitarra, anche se uno dei più semplici e meno virtuosi, è forse uno dei più espressivi mai usciti dalla Stratocaster del musicista inglese.
“Love don’t mean a Thing” si muove a ritmo funk, tra chitarre pulite dal suono ricchissimo e una sezione ritmica dal gran groove; non possiamo non notare poi l’apporto vocale di Hughes: la voce acuta e potente del nuovo bassista funge da perfetto contrappunto a quella calda e profonda di Coverdale.
Con “Holy Man” e “Hold On” ci muoviamo sempre sulle stesse coordinate: la prima quasi sulla struttura da power ballad, con un bel refrain contrapposto ad una strofa super cantabile, la seconda dal sapore più blues, cantata in strofe alternate da Coverdale e Hughes.
Torniamo quasi ai tempi di “Burn” con “Lady Double Dealer”, tra i brani più belli dell’album: un energico pezzo di puro hard rock, dove un sicurissimo Blackmore sforna uno dei riff più convincenti di sempre.
Da notare anche il bridge melodico, in perfetta linea con quanto la band vuole proporre in termini di novità nel sound.




Decisamente funkeggiante è la coinvolgente “You can’t do it right”, cantata da tutte e due le voci in un perfetto alternarsi; notiamo quasi per la prima volta la presenza di Lord grazie ad un azzeccato solo di synth (la presenza del tastierista è notevolmente diminuita in termini solistici e di “volume“).
Si rockeggia decisamente di più con “High Ball Shooter”, brano perfetto, dal tiro deciso e dalla struttura ben architettata: di nuovo le voci si alternano creando contrasti da brividi e Lord ci regala un bellissimo solo old style di organo.
“The Gypsy” rappresenta una piccola anticipazione di quello che sarà il sound dei Rainbow: ritmiche spesso in mid tempo, tonalità minori, atmosfera “epica” e un Blackmore che predilige l’espressività e la melodia allo sfoggio della tecnica.
Grandissimo brano.
Conclude quella che è la più bella ballata della band inglese, “Soldier of Fortune”.
La voce di Coverdale poche volte è stata cosi’ ispirata e struggente, e Blackmore non è mai stato cosi’ abile come in questo caso nel comporre qualcosa di veramente toccante.




“Stormbringer” è un ottimo album, forse colpevole di essere uscito a nemmeno un anno di distanza dal capolavoro “Burn” e quindi eclissato dal successo più duraturo del precedente.
Le acque si muoveranno di nuovo, il sound subirà altri mutamenti, a partire già dal lavoro successivo e dall’entrata di Bolin.
Ma di questo parleremo più avanti.