domenica 1 maggio 2011

Jethro Tull - The Broadsword and the Beast (1983)


Questo quattordicesimo album della leggendaria progressive rock band britannica non è sicuramente tra i più celebri, e purtroppo neanche tra i più apprezzati dai fan.
Sicuramente il sound classico dei Jethro Tull da questo punto in poi ammetterà nuove influenze, provenienti dal rock più classico piuttosto che dall’elettronica o dal pop, sempre nelle dovute misure naturalmente.
L’album venne registrato dopo alcuni (ennesimi) cambi di line up, ulteriore dimostrazione di come tutta la band girasse attorno all’unica figura di Anderson, e con ancora l’amarezza rimasta dal parziale insuccesso di “A”, dove le influenze esterne al sound prog e folk erano maggiori ma forse non ben amalgamate a tutto il resto.
Si puo’ dire che il 1980, per i Jethro Tull, segnò un vero e proprio punto di svolta artistico, con un progressivo allontanamento dalla fortissima componente folk e acustica che aveva caratterizzato i primi lavori in studio della band.




Parliamo allora di “The Broadsword and the Beast”, uno dei lavori più controversi dei Jethro Tull, e a mio parere uno dei più belli grazie alla ricchezza e varietà di suoni e soluzioni nella sua struttura.
Bisogna precisare pero’ che la versione che si trova ora in commercio è la rimasterizzazione del 2005, che contiene ben otto bonus track: io mi limitero’ a prendere in esame solo le tracce della versione originale, e non della ristampa, quindi le prime dieci (per chi volesse acquistare l’album consiglio comunque la ristampa, otto canzoni in più fanno sempre piacere!).
Iniziamo con “Beastie”, apertura atipica, forse uno dei pezzi più particolare del sound dei Jethro: il folk e le chitarre acustiche, per non parlare del flauto, in questo brano sono banditi e al loro posto i synth e la distorsione (moderata, comunque) delle chitarre elettriche prendono il posto di protagonisti.
Il brano è molto godibile e catchy, con una bella componente elettronica che dona la giusta modernità.
Torna il flauto di Anderson nella successiva e più classica “The Clasp”, vera e propria miscela folk rock.
L’album prosegue con quello che ritengo essere uno dei pezzi più belli dei Jethro Tull in assoluto: “Falles on hard times”.
Il brano mescola il sound originale della band con un andamento ritmico dominato dall’elettronica, e una profonda vena bluesy nelle linee vocali; in definitiva consiglio l’ascolto anche solo per questo pezzo…fantastico!
Un intro di piano malinconico e apre “Flying Colours”, che prosegue sulla scia di “The Clasp” in quanto a fusione di sound “vecchio” e “moderno”: nei synth che accompagnano le strofe si fa sentire tutta l’energia del rock anni ‘80 che verrà, dall’AOR degli Europe al gusto melodico di altre decine di band europee.
Bellissima è anche la successiva “Slow Marching Band”, che a tratti puo’ ricordare il sound di “Songs from the Wood” (1977), con la particolarità che il piano che accompagna dona un tocco di modernità e se vogliamo un minimo “pop” all’andamento del brano.
Una bella ballad, insomma.




“Broadsword”, aperta da un tappeto tastieristico e percussivo, ci porta ad uno degli apici dell’album: il sound si fa epico, grandioso nelle aperture dove entra tutta la band, di grande respiro e molto solenne nel suo andamento sicuro e deciso.
Da segnalare anche, a metà brano, il solo di chitarra di un Martin Barre che dona il meglio di sé in pochi secondi.
Torniamo al tipico sound dei Jethro Tull più classici con “Pussy Willow”, che si avvicina ai brani di un altro grande album della band britannica, quel “Stormwatch” (1979) dove il progressive e il folk andavano a braccetto creando architetture perfette.
“Watching me watchin you” è forse il brano meno ispirato dell’album; aperto da un fitto intrico elettronico, prosegue di questo passo anche nella strofa sebbene qualche volta faccia capolino il flauto di Anderson; il risultato è un brano forse troppo azzardato e decisamente monotono.
Chiudono “Seal diver” e “Cheerio”, brani ben più interessanti del precedente: il primo aperto da una bella melodia chitarristica,e da una altrettanto bella linea vocale di Anderson che pero’ non raggiunge il picco come in altri brani precedenti.
La seconda invece puo’ essere considerata come un outro (dura circa un minuto e quindici secondi), nella prima metà cantato sopra una semplice melodia folk ripresa nella seconda parte dal flauto che sparisce in dissolvenza.
Giusto per rendere un po’ l’idea della versione dell’album che si trova in commercio oggi, tra le bonus track ci sono brani veramente validi come la folk ballad “Jack A Lynn”, o la movimentata “Mayhem, maybe”.




Album consigliassimo, sia nella versione originale che in quella rimasterizzata che aggiunge ad un buon gruppo di pezzi ottimi un tocco di particolarità in più.

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