domenica 21 agosto 2011

Sonny Rollins - Incisioni per la Blue Note (1957) - Prima Parte


La fitta discografia di Sonny Rollins vede l’intensificazione delle incisioni, e quindi delle uscite, concentrarsi in alcuni periodi particolarmente prolifici (sebbene l’attività del sassofonista sia stata tutt’altro che discontinua): tra il 1956 e il 1957 Rollins incide in qualità di leader ben 13 album.
Le registrazioni del 1956 vedono il sassofonista legato alla Prestige, etichetta che lo accompagnava fin dagli esordi ma che abbandonerà lo stesso anno per avvicinarsi a diverse realtà discografiche di crescente notorietà.
Tra i lavori più significativi usciti per la Prestige ricordiamo “Tenor Madness” e “Saxophone Colossus” (1956), pietre miliari della letteratura per sassofono nonché dischi imprescindibili per tracciare un‘ipotetica storia del jazz: il primo vedeva Rollins affiancato da un giovane Coltrane nel celeberrimo blues da cui l’album prende il titolo; a completare la formazione partecipavano Philly Joe Jones alla batteria, Red Garland al piano e Paul Chambers al contrabbasso: nientemeno che l’affidabilissima sezione ritmica che affiancava nello stesso periodo Miles Davis.
Con “Saxophone Colossus” vediamo un Rollins alle prese con quelli che saranno due punti fermi nella sua carriera di musicista/compositore, certamente guidato da gusti personali e interessi legati alle origini della musica afroamericana, anche dal versante caraibico: il calypso, che con “St. Thomas” raggiunge forse l’apice della sua “messa in jazz”, e il blues (specialmente in minore), dove il musicista sembra voler pagare tributo alle origini attraverso l’utilizzo di una struttura “elementare” e di un gusto melodico decisamente più asciutto e diretto (in questo album ricordiamo “Strode Rode”).

Lo scioglimento del legame con la Prestige porta Rollins verso la realtà della Blue Note, etichetta con la quale lavorerà per un unico ma intensissimo anno (1957), che vede l’uscita di quattro album registrati e missati sotto l’ala protettrice del sempre più ricercato (a ragione) Rudy Van Gelder.
Sonny entra nello studio di Van Gelder, ad Hackensack (New Jersey), nel dicembre del ‘56, affiancato da una formazione completamente rinnovata: Max Roach alla batteria (presente però in “Saxophone Colossus”), Wynton Kelly al piano, Gene Ramey al basso e un giovane Donald Byrd alla tromba, non ancora avviato alla propria carriera da leader.
L’album verrà intitolato semplicemente “Volume One”.
Durante la sessione del 16 dicembre vennero registrati cinque brani: “Decision”, blues minore di altissimo livello, il cui tema, basato su di una serie di obbligati ritmici, viene suonato da Rollins e Byrd all’unisono creando un effetto di straordinaria espressività; “How Are Things in Glocca Morra?” (Lane/Harburg), ballad tra le favorite del sassofonista, grazie forse alla sua natura sognante, all'incedere cullante e alla grande liricità del tema in entrambe le sezioni; “Sonnysphere”, di gran lunga il pezzo più bop del disco, ritmicamente sostenuto e dal tema essenziale e conciso, esposto parzialmente ma ripreso completamente per il finale; da segnalare, in questo brano, le grandissime prove solistiche dei musicisti; i pezzi più “deboli” dell’album sono sicuramente “Bluesnote” e “Plain Jane”, che sebbene siano eseguiti con maestria non raggiungono il livello di coinvolgimento dei restanti brani.



Breve parentesi con la Contemporary (per le session di “Way Out West”, affiancato solamente da Ray Brown e Shelly Manne) e Sonny rientra subito in studio con Van Gelder, per le registrazioni di quello che sarà “Volume Two”.
Il secondo album per la Blue Note è forse quello che avvicina di più la figura di Rollins al bop, distogliendolo per un attimo dal grandissimo interesse per la rielaborazione in chiave jazzistica (ma non necessariamente una complicazione) della song americana e della canzonetta da film/musical, oltre che dalla crescente influenza che il calypso, e i ritmi caraibici in generale, esercitava sulla grandissima ecletticità dell’artista.
Ad Aprile ‘57 Sonny è ad Hackensack con Paul Chambers, Art Blakey alla batteria, mentre al piano troviamo la compresenza di due musicisti di diversa estrazione: Monk e Horace Silver; al fianco del sassofonista troviamo questa volta il grandissimo J.J. Johnson al trombone (il legame che legava Rollins al trombonista era decisamente saldo: ricordiamo infatti che un Rollins ancora diciannovenne figura nelle registrazioni di alcuni pezzi di Johnson, ad esempio nella celebre “Opus V”).


Solo i due brani di apertura portano la firma di Rollins: “Why Don’t I” e “Wail March”.
Il primo vede l’esposizione di un tema basato su di una semplice cellula ritmica sopra ad una kicks mantenuta dalla sezione ritmica; dopo il tema il primo solo spetta allo stesso Rollins, che sembra trovarsi completamente a suo agio in una struttura bop; il solo di Johnson, che segue immediatamente quello del leader, si distingue per la naturalezza con cui il musicista si muove tra gli accordi suonati da Silver, oltre che da un bellissimo timbro certamente valorizzato dall’abilità tecnica di Rudy Van Gelder.
Il brano si conclude dopo i consueti scambi di quattro battute (in questo caso) con la batteria, vera e propria formula strutturale utilizzata da Rollins nella maggior parte dei pezzi in up tempo.
“Wail March” presenta un tema tanto particolare quanto bello: la prima parte (il tema vero e proprio) vede i fiati suonare su di una serie di rullate quella che potrebbe benissimo definirsi una marcia “distorta”; l’esposizione continua con l’entrata di J.J. Johnoson sopra una ritmica che muta in uno swing frenetico ed eccitante, fino poi a sfociare direttamente in assolo senza cesure o cadenze evidenti; l’assolo di Johnson in questo brano è sicuramente tra i più interessanti e validi dell’intero disco.
Sono presenti anche due pezzi di Monk, “Misterioso” e “Reflections”, che prendono qui una quasi inedita veste bluesy, accentuata dal carattere dei soli dei fiatisti.
Chiudono due song che fungono da legame con gli interessi principali di Rollins (“You Stepped Out Of a Dream” e “Poor Butterfly”) , ma in mano a musicisti quali Silver, Blakey e Chambers risultano quasi stravolti e riportati ad un altro livello, trattati come se i musicisti avessero in mano gli strumenti per mutare materiale popolare in strutture hard bop.
“Volume Two” vede quindi il musicista affacciarsi a stili e strutture decisamente distanti dagli standard ai quali era abituato, e ama tutt’ora cimentarsi: non a caso proporrei di intendere questo disco quasi come una sperimentazione, un opera creata dalla curiosità e dalla voglia di espandere il proprio range di influenze ed interessi.
Grandissime sono le prove solistiche di un Monk che si distingue anche nell’accompagnamento, oltre che di un Blakey che dimostra una duttilità fuori dal comune (ascoltare la naturalezza con cui il tempo viene dimezzato, oppure la limpidezza dei passaggi durante gli scambi di quattro o otto battute).



Fine Prima Parte