lunedì 23 maggio 2011
Comus - First Utterance (1971), manifesto di psichedelia ossianica.
Finalmente parliamo dei Comus!
Sicuramente chi è entrato nell’immenso labirinto del progressive rock degli anni settanta avrà sentito parlare di questa grandissima band, oppure ascoltato qualcuna delle canzoni più celebri.
Per introdurre questo capolavoro che porta il nome di “First Utterance” partirei dalla line up, buon punto di inizio per addentrarsi in quello che è il particolarissimo sound dei Comus.
Al fianco del leader Roger Wooton (chitarra folk e voce), Glenn Goring (chitarre e percussioni), Andy Hellaby (basso), Colin Pearson (violino e viola), Bobby Watson (voce femminile e percussioni) e Rob Young (fiati: flauti e oboe).
Siamo davanti ad una formazione ben assortita e decisamente particolare, incentrata su strumenti atipici per quanto riguarda il progressive più canonico, dove al massimo figurava un flauto al fianco degli strumenti ritmici (con le dovute eccezioni naturalmente).
Gli strumenti di estrazione classica (oboe, flauto, viola e violino) incontrano quelli di natura folkloristica (lo stesso violino, chitarra folk e percussioni varie) generando un sound unico e lievemente distorto, certamente ricco di influenze popolari britanniche ma non libero dalle nuove soluzioni della psichedelia: l’atmosfera straniante, perturbante e assolutamente “allucinogena” che si respira nel procedere dell’ascolto non è facile da riscontrare in altre band che si avvalgono del solo uso di strumenti acustici e popolari.
Quello creato dai Comus non è altro che un labirinto sonoro, irreale e concreto allo stesso tempo, tra aree illuminate e altre nel buio più nero; un viaggio al limite tra il fiabesco e il disturbante, tra la purezza del folk anglosassone e le peccaminose grinfie della psichedelia.
“Diana” apre le porte del mondo al contrario dei Comus, presentandosi come una sorta di manifesto della psichedelia ossianica della band,
Un ostinato di basso regge la struttura sulla quale poggiano l’allucinata (sfiderei chiunque a non definirla tale!) voce di Wootton e quella di Bobby Watson, decisamente più eterea e canonica; molto interessanti le inserzioni degli archi poco prima della metà del brano, i quali aprono la strada alle percussioni facendo decollare il brano da un “goffo” folk a una sfrenata danza.
La lunga “The Herald” ci dimostra come il sound Comus sia assolutamente personale, ricco e malleabile: una prima sezione in stile ballata, dal sapore cupo e malinconico, precede una sezione centrale (strumentale) dove è possibile ascoltare ognuno degli strumenti nella fantastica gamma di timbri che la band propone; infine troviamo una coda dove riprende il cantato riproponendo la malinconica melodia iniziale.
Proseguiamo.
“Drip Drip” è sostenuta da una ritmica tribale sulla quale il violino intesse melodie tra il popolare irlandese e il sapore modale della musica orientale, accompagnando quasi in contrappunto la spericolata voce del leader.
La successiva “Song to Comus” risulta una delle canzoni più belle ed interessanti dell’album, dove la chitarra acustica ha un ruolo assolutamente primario, accompagnata per la prima volta da un flauto veramente in risalto rispetto al resto dell’impasto timbrico.
Le strofe si contrappongono ad una seconda sezione (la quale non è ragionevole chiamare ritornello) dove il ritmo si fa più sostenuto, grazie anche al supporto del violino e della viola che irrobustiscono il tutto; le percussioni ritmano sempre col loro incedere etnico ed ipnotico e sembra quasi di trovarsi di fronte ad un atipico suonatore di tabla.
Sembra di ascoltare i Jethro Tull migliori (sebbene siamo veramente molto lontani dalla band di Anderson) con la seguente “The Bite”, movimentata e frenetica dove la voce di Wootton regala una delle sue performance migliori, tra vocalizzi al limite del psichedelico e passaggi dal sapore vagamente bluesy.
Dopo il breve intermezzo strumentale “Bitten”, ascoltiamo il brano conclusivo di questo “First Utterance”: “The Prisoner”.Qui più che in altri brani è lampante l’influenza folklorica non solo britannica (o in generale nord-europea) ma anche mediterranea, riscontrabile nella ripetitività di alcuni moduli, nella natura di alcuni vocalizzi e nell’importante apporto delle percussioni come vero e proprio elemento portante della struttura.
Un ultima parola la vorrei spendere per i testi: temi quali l’alienazione, la pazzia, il rovesciamento delle leggi morali e la violenza, il fondersi della realtà col sogno e tutto ciò che è perturbante torna più volte all’interno delle liriche; l’atmosfera cupa, nordica e notturna che troviamo in alcuni brani si riflette negli
stessi testi (una citazione su tutte: “The dim light she comes peering through the forest pines, and she knows by the sound of the baying, the baying of the hounds”).
Questo è un album da ascoltare e riascoltare: la prima volta non riuscirà ad essere chiaro in tutti i suoi particolari, non riuscirete a percepire la voce dei singoli strumenti e ancor meno riuscirete a notare la grandissima raffinatezza di alcuni passaggi scontrarsi con il delirio psichedelico di altri.
Un must.
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