In questo piccolo spazio vorrei di volta in volta consigliare (più che recensire, nel vero senso della parola) qualche album jazz, spaziando un po’ dalle origini fino ai tempi più recenti, passando dallo swing al bebop, dalle registrazioni storiche a quelle più particolari.
Bene, inizierei questa nuova rubrica consigliando un album di Thelonious Monk, registrato per la celebre (allora nata solo da un paio d’anni) etichetta Riverside, nel 1955.
Il titolo dell’album non ne nasconde il contenuto, volendo considerarsi un vero e proprio tributo ad uno dei grandi del jazz e della musica in generale, ovvero il pianista, compositore, direttore e leader di una delle più celebri big band di sempre, Duke Ellington (1899-1974).
“Thelonious Monk plays Duke Ellington” è quindi una rilettura dei classici del grande musicista in chiave puramente monkiana, con il supporto di una sezione ritmica composta da Kenny Clark alla batteria e Oscar Pettiford al contrabbasso.
I brani sono tutti grandi classici di Duke, dalla celeberrima “It don’t mean a Thing (if it ain’t got that Swing)”, fino a “Black and Tan Fantasy” passando per “Mood Indigo” e “Sophisticated Lady”.
Album interessante e non tanto impegnativo; presentando pezzi molto conosciuti e senza dubbio apprezzati risulta essere un buon ascolto, piacevole e particolare allo stesso tempo.
Facciamo un salto al 1962, qualche anno dopo, dove troviamo un bellissimo album che consiglio senza nessuna riserva e nessuna eccezione: “Soul Samba”, di Ike Quebec, che col suo sax tenore guida un manipolo di grandi musicisti attraverso i territori della samba e della bossa nova con un pizzico di feeling soul.
Registrato per la Blue Note, vede impegnato nella formazione al supporto di Quebec Kenny Burrell alla chitarra, Wendell Marshall al basso, Willie Bobo alla batteria e Garvin Masseaux al chekere (uno strumento a percussione originario dell’Africa, simile al moderno shaker).
Tra i pezzi più belli dell’album troviamo l’opener “Loie”, scritta dallo stesso Kenny Burrell, “Me ‘n you” che si muove sui passi della samba, in una malinconica tonalità minore; dobbiamo menzionare anche “Liebestraum”, rilettura in chiave latin del celebre notturno il la bemolle maggiore di Franz Liszt (1811-1886), oltre alla più classica “Favela” in una versione molto interessante sorretta dall’accompagnamento di Burrell.Facciamo un altro salto più che decennale per arrivare nel 1977, quando due mostri sacri del jazz come Dizzy Gillespie e Count Basie registrano “The Gifted Ones”, una collaborazione che non ha niente da invidiare ad altre più celebri o menzionate.
I brani tutti firmati dai due musicisti (a parte “St. James Infirmary”, classico blues minore di Irving Mills e “You got It” di Frank Foster) si muovono seguendo le tracce della semplicità stilistica ed esecutiva.
Le bellissime parti solistiche sono ben equilibrate, tra melodia semplice e diretta a improvvisazione giostrata con grandissima maestria.
Tra i brani più notevoli possiamo senza dubbio includere “Costantinople”, scritta da Gillespie: aperta dal piano di Basie a cui si aggiunge all’unisono il contrabbasso, vede poco dopo l’entrata del bellissimo tema del trombettista, che con poche note crea una fantastica melodia; da notare anche il solo di contrabbasso di Ray Brown, e come durante lo stesso, il musicista, si trovi a dialogare col piano di Basie.
Altro pezzo forte è “St. James Infirmary”: con poche note (è questo il bello!) i musicisti riescono a creare un’atmosfera incredibile; ascoltare il tema esposto dalla tromba e il solo di piano: ci si accorgerà che tutto quello che è proposto da Basie e da Dizzy è immediatamente cantabile e memorizzabile.
Album ultra consigliato.
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